Fra le esperienze più gustose e valide del jazz, quella del quintetto del percussionista John Hollenbeck può essere considerata uno dei più originali punti di arrivo del jazz, dove il termine originalità realmente acquisisce il suo vero senso. The Claudia Quintet, nome ispirato ad una fantomatica donna che lega le fila del gruppo in maniera immaginaria, si rivelava nel 2002 come uno dei gruppi di jazz poliedrico o post-jazz che avvalorava la tesi che, dopo le tappe storiche del jazz-rock, della fusion music e delle contaminazioni metropolitane, era ancora possibile creare un prodotto musicale che avesse ancora il sapore del jazz, evitando con cura le inevitabili ridondanze sempre nascoste nelle piaghe dei motivi di base del genere e mantenendo una mentalità aperta con lo sguardo rivolto altrove: quell’esordio probabilmente tenne a battesimo l’entrata in scena nel jazz che conta di Chris Speed (clarinetto/sassofono tenore), di Matt Moran (vibrafono) e Ted Reichman (fisarmonica) mentre il contrabbassista Drew Gress aveva già un decennio di musica alle spalle. Ma l’argomento più convincente del gruppo era l’incredibile capacità di creare quegli art products, ossia musica che nel suo svolgimento suscita inevitabilmente qualità e ricordi che si trovano in un’opera d’arte: l’idea di Hollenbeck, pur nascendo dalla semplicità di un jazz tenuto a ritmo di moderati controtempo, richiedeva l’appoggio fondamentale dell’asse vibrafono-fisarmonica e gli istinti camerali dei fiati. Era ed è su questa base che si sta svolgendo la carriera artistica del gruppo americano: la coppia vibrafono e fisarmonica sono le pareti del corridoio musicali che (senza nessun virtuosismo particolare) disegnano gli scenari, dei veri e propri coloranti sonori, mentre a Speed viene dato il compito di erigere monumentali assoli che pescano dal jazz e dalla classica.
“September“, ultima pubblicazione per la Cuneiform R. restituisce la migliore versione del Claudia Quintet dopo l’opacizzazione intervenuta dopo “For” e libera il naturale potenziale poetico che era stato notevolmente compresso per via di una normalizzazione dei suoni forse inconsapevolmente accettata per dare ulteriori sviluppi alla proposta musicale. In questo cd la fisarmonica è affidata a Red Wierenga, mentre Chris Tordini si alterna al contrabbasso con Drew Gress. In “September” sono i particolari che devono evidenziarsi e non c’è nessuna ragione per non paragonarli a quelli che suscitarono interesse agli esordi: creato nelle sue grandi linee in Liguria in uno dei settembre che Hollenbeck passa a meditare fuori casa, l’album si presenta completo e riflessivo, con il calibro giusto per ricomprendere in una formula jazz accenti minimali e progressivi, musica moderna da camera e rielaborazioni in chiave elettronica, accettabilissime ridondanze fusion e spoken word alla Kenneth Patchen, uno scrittore in cui si ritrovano molti dei caratteri dei Claudia Q.: onestà, cuori buoni, assurdi controllati e raffinatezze da scovare nel carattere degli uomini.
L’interesse verso il jazz dell’Est europeo sembra essere stato raccolto da qualche anno dalla maggior parte degli operatori di settore: sebbene il mio punto di vista è che questo jazz soffra molto spesso di un retaggio inevitabile degli stili passati, non mancano individualità e, soprattutto quando le proposte sposano caratteristiche legate agli aspetti musical-popolari di quei paesi, si possono far evaporare molte manifestazioni di disinteresse che si presentano all’ascolto maturo.
Un esempio potrebbe essere rappresentato da questo gruppo polacco, i Tatvamasi, quattro musicisti a pieno regime sonoro, che propongono un jazz corposo, affidato alle idee del chitarrista Grzegorz Lesiak, un musicista di chiara ascendenza elettrica (che condivide impostazioni jazz e rock) ma con un bagaglio ampliato a molte contaminazioni, da quelle folk polacche ed ucraine alle solite influenze orientali: “Parts of the Entirety” poggia su lunghe jam strumentali, in cui anche il resto del gruppo dimostra un apporto fondamentale di energia: dalle escursioni roboanti del sax di Tomasz Piatek alla metronomica sezione ritmica di Lukasz Donar (bass) e Krzysztof Redas (batt), si costruiscono le basi per un rinfrescante sermone per resuscitare lo spirito di Don Cherry. Sebbene una maggiore evidenza delle sonorità etniche sarebbe forse auspicabile per il futuro (“Rhubanabarb” potrebbe essere un canale di sviluppo), il loro jazz ha già una propria idea preconizzata e si conferma godibilissimo e genuino nell’àmbito di tanta musica del genere precostituita.