La world music del secolo ventunesimo sembra aver cambiato molte delle sue dinamiche: tale situazione si avverte soprattutto in quei luoghi geografici ove la stessa ha costruito i suoi avamposti negli ultimi quarant’anni. Parallelamente alle discipline musicali moderne nate dopo la seconda guerra mondiale, le culture musicali del continente nero, con processi graduali, si sono emancipate dalla loro solitudine, sostituendo il loro potenziale a quello dei loro colonizzatori e sviluppando tutta la loro aureola di novità. Questa considerazione (chiaramente non passibile di piena universalità quando si pensa ai tanti paesi che hanno comunque avuto difficoltà di internazionalizzazione delle proprie provenienze musicali) può essere ben applicata alla world music del centro-ovest africano: stati come il Ghana, il Camerun, la Nigeria, lo Zaire o il Congo sono stati il luogo natìo di tutto quel flusso musicale frutto della libertà acquisita e della volontà di recuperare il tempo perduto teso non solo a far vetrina di aspetti storicamente repressi per via politica, ma anche a creare nuove integrazioni di pensiero con l’occidente: è su queste basi che il cosiddetto afro-pop (l’aspetto più evidente del processo di occidentalizzazione della musica africana) ha avuto la sua importanza, proprio perchè riusciva a smontare le barriere con “passi” veloci. L’umore di quelle musiche ha rispecchiato la composta goduria del dignitoso benessere che ha esplicato i suoi effetti fino a fine secolo scorso. Poi, la disillusione di una libertà democratica effimera, la saturazione del prodotto offerto, nonchè nuove vicende politiche, hanno rafforzato i toni energici: oggi, molti dei musicisti impegnati nella sensibilizzazione dei problemi dei paesi africani, sembrano voler spingere su un modello musicalmente ineccepibile di ethnic music documentato da fatti ed episodi scabrosi o discutibili dei loro paesi ma dimenticando di rappresentare più fedelmente le loro tradizioni. Sebbene questa tendenza non sia ancora assoluta ma in fase embrionale, vi sono già elementi a sostegno di questa tesi: prendete il caso della registrazione ufficiale del musicista congolese Jupiter (dal titolo programmatico “Hotel Univers“), artista già ampiamente riconosciuto all’estero per via dei molti tours fatti in quasi dieci anni con il suo gruppo Okwess International e delle affermazioni sulle potenzialità rivoluzionarie della sua musica: in essa non troverete niente delle dinamiche che fecero scoprire il Congo musicale negli anni settanta, quando si diffuse il soukous, un genere musicale di incrocio tra la rumba di origine cubana e la tradizione orale congolese, così come non ci sono motivi di transito con le sincopi di altri generi (nel nostro caso il jazz di cui se ne intuirono gli accenni grazie alle esperienze di mostri sacri della musica congolese come Franco). Jupiter intraprende una strada equilibrata, non nuova e che consiste in un afro-pop di intenso aroma musicale, a dire il vero poco criticabile dal lato musicale e sicuramente da evidenziare se visto in prospettiva di quello che la musica africana ha offerto tramite le commistioni con il funk, il soul ed in generale le connessioni ritmiche; ma dà l’impressione di abbassare il livello di guardia nel processo di creatività utile per ulteriori sviluppi della musica etnica. In Occidente di questi casi, purtroppo, ne abbiamo a bizzeffe.