Qualche tempo fa in un mio articolo sul cosmopolitismo musicale (1) ebbi modo di evidenziare che nei nuclei ristretti della musica colta si andava facendo strada una presunta nuova concezione sul futuro della musica, basata sull’innalzamento elevato a potenza delle conoscenze musicali sia in fase di scrittura che di esecuzione. Coloro che possono fregiarsi di ritenersi i grandi musicisti dei nostri tempi sembrano aver accolto questa linea di pensiero che si presenta come una corsa concorrenziale alla creazione del massimo teorico: il jazz oltranzista, quello che oggi si riconosce nella prima linea di un ipotetica truppa di sperimentatori, non fa eccezione a questa regola; qualsiasi sia lo strumento utilizzato l’approfondimento sui suoni segue percorsi di eccellenza che impegnano i musicisti in nuove tecniche come risultato di nuove risorse, dirottati nell’esplorare in modo perfetto certe zone di suono difficilmente accessibili a qualsiasi suonatore. Se a mò di esempio prendiamo in considerazione i maggiori sassofonisti jazz attualmente sulla scena (Evan Parker, John Butcher, Anthony Braxton, Roscoe Mitchell, Joe McPhee, Ned Rothenberg, etc.) non è difficile scoprire che la regola della coerenza artistica e soprattutto quella della perfezione quasi scientifica dell’improvvisazione venga applicata in maniera corretta.
La pubblicazione di “Empiricism in the west” duo composto da Vinny Golia e Urs Leimgruber, due mostri sacri degli strumenti a fiato (segnatamente sassofoni ma anche strumenti avvicinabili a quella famiglia), rientra a pieno titolo in quei lavori di improvvisazione libera che somigliano più a manifesti programmatici sulla musica che ad esercizi di causalità. Vorrei al riguardo sottolineare come per entrambi i musicisti gli ultimi dieci anni siano stati ganci discreti utili per costruire un’ulteriore giovinezza artistica, a cui è ignobilmente seguito un indicibile disinteresse della stampa: un fatto ascrivibile alla solita mancanza di chiarezza ed ambiguità nei confronti dell’audience.
Golia (fondatore della più importante etichetta discografica dell’area californiana, la Nine Winds) non è stato solo colui che ha convogliato l’attività della zona nel presunto ed inconsistente mondo delle registrazioni improvvisative dal vivo, ma è stato egli stesso attore di un jazz ricercatissimo, presentato a compartimenti stagni tra free bop (coltivato nelle formazioni a più elementi) e una delle più avvenenti manifestazioni della libera improvvisazione (soprattutto negli episodi concertati a duo (2)). Leimgruber, da parte sua, dopo essere stato un factotum del free jazz svizzero, si è gradatamente inoltrato nelle strade impervie dell’improvvisazione giungendo negli ultimi anni a registrazioni di particolare efficacia (3).
“Empiricism in the west” è una rivelazione da attribuire ad entrambi: andando a fare una ricognizione discografica non c’è dubbio che per Golia questa lussuosa collaborazione rappresenta un obiettivo veramente alto di arrivo; ma anche per Leimgruber non si può fare a meno di utilizzare medesime considerazioni specie alla luce di alcune dubbie prove collaborative recenti, tra cui si segnalano quella con Turner e quella fin troppo tecnica con Parker. In questa unione di intenti, per l’esattezza, lo svizzero è al soprano e tenore, mentre Golia si cimenta con una serie di strumenti affini (sassofono basso, soprillo e sopranino, flauto basso e clarinetto contralto): lo scopo è l’ottenimento di una sinergia diretta, magmatica dei suoni di tutti gli strumenti, che si svolge tenendo presente tutto quello che la tecnica prevede: respirazione circolare, ricerca delle dissonanze, multifonici, esaltazione delle dinamiche acustiche. Ma c’è anche un aspetto teorico in più che rinviene dalla scelta dell’intestazione dei brani: titoli come Obscure dimension/The analytic and the synthetic/The scientific method/Matter is permanent possibility of sensation/The problem of induction/Logical truths are linguistic tautologies, ecc., affermano un tema profondo che si sposa immediatamente con la musica, ossia quello della constatazione del mondo dei “contrasti” immediati, delle differenze non colmate da un pensiero lineare, della possibilità di ottenere soluzioni biologiche della musica: la diversità rispetto a tanta arida improvvisazione pur di contenuto tecnico elevato, sta nel fatto che qui la musica viene pensata in real time seguendo un percorso da laboratorio; si tratta di far emergere sostanza organica, nuove specie materiche attraverso suoni estranei e selezionati che ne vogliono acclarare la loro potenza naturale, l’unica in grado di dare spiegazioni.
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Note:
(1) l’articolo è: E’ plausibile una seconda modernità musicale?
(2) tra i tanti duo in tema quello forse più radicale è “Mythology” con Peter Kowald, ma vi consiglio anche:
-Circular logic, con Steve Adams
-Birdology, con Peter A. Schmid
-Fancy meeting you here, con Rick Helzer
-San Diego Sessions, con B. Turetzky
(3) mi riferisco soprattutto ai solo 13 Pieces e Chicago Solo.