Umberto Petrin – Traces and ghosts
La regola dell’ufficialità del cd in solo non sembra potersi applicare al pianista Umberto Petrin: nonostante il primo vero disco in solitudine è arrivato nel 2011 grazie all’appeal internazionale fornito dalla Leo R., Umberto aveva già dietro di sè una carriera dove il piano era spesso oggetto predominante: si pensi ad “Ooze” del 1992 e ai tanti readings in cui mise a disposizione il suo pianismo. Ma quello che non è mai cambiato è stato lo stile e l’approccio: una sintesi la sua che metteva assieme alcune linee “oblique” di Debussy e Skriabin, pezzi astratti di musicalità seriale alla Webern, e i territori più impervi dell’improvvisazione di Monk, Taylor o McCoy Tyner. In più una gran cultura attigua ai confini dell’arte musicale.
“Traces and ghosts”, secondo cd ufficiale in solo dopo “A dawn will come” del 2011, non ha bisogno di elogi, perchè ormai Petrin si elogia automaticamente sentendolo suonando: il pianista di Broni è qualcosa di più di un musicista, direi un saggio direttore di istinti umani, sempre proteso nel trarre dalla sua musica (che sembra incredibilmente pessimista) le verità dell’ottimismo. In “Traces and ghosts” si cristallizzano momenti e passioni della sua vita artistica: da Dionisio a Guston, da Monk a Lucrezia De Domizio Durini, così come inequivocabili i contenuti delle diapositive proiettate da titoli come “Tonica” o “The ghost is here”: ogni argomento è trattato con rispetto, con la spontaneità e la consapevolezza di quella carica morale che solo l’arte è in grado di offrire.
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Hanuman jazz Quartet – Hanuman Soundhousing
Il gruppo Hanuman jazz quartet così spiega il suo progetto:
“..the group music, recovering seductive and less know melodies of the militant jazz, from the 60s to the contemporaries (Ornette Coleman, Jimmy Giuffre, Sun Ra, Steve Lacy, Wayne Horvitz, Robin Holcomb, Carla Bley, Roscoe Mitchell, etc.) gest rid of the obsession with traditions, ambiguous formula, often transformed in a regulatory system, offering a psychoactive and very much alive art….” (dal loro sito web).
Il quartetto del clarinettista Fabio Martini si impossessa di quello che è l’esperienza dell’ascolto delle particolarità dei grandi: i personaggi citati si imposero per una particolare melodia o per alcune gesta strumentali a loro solo riferibili: ritagliare questo patrimonio inserendolo nel più ampio spazio regolato dall’improvvisazione libera è quel compito difficile a cui tutti vorrebbero accedere e risolvere. E la validità di “Soundhousing” (che unisce l’introspezione di Martini a quella di musicisti sensibili e di spessore come Solani al cb, Franceschetti al sax e Sala alla bt) sta proprio nel saper tradurre con un impianto personale queste schegge di creatività sparse nella storia del jazz. E’ un Martini piuttosto lontano dalla sperimentazione di “Circadiana”, ma la diversità è voluta e rappresentata in funzione della capacità di esplorare i mondi variamente incrociati dell’improvvisazione e dell’arte presentata in forma di suoni.
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Stefano Mangia-Adolfo La Volpe-Giorgio Distante: Glad to be Unhappy
“Glad to be unhappy” del trio composto dal cantante Stefano Mangia, il chitarrista Adolfo La Volpe e dal trombettista Giorgio Distante è un nuovo progetto che sconvolge le normali dinamiche improvvisative che sono la regola in casa Leo: partendo dal brano di Rodgers & Hart, i tre musicisti imbastiscono un tessuto moderno per lo standard. Se nel tempo i sentimenti non presentano modificazioni, allora è possibile anche vestirli di nuovi abiti. La vocalità melanconica di Mangia è un coacervo di influenze: riproduce l’umore oscuro dei cantanti jazz degli anni cinquanta, presenta delle inflessioni medio-orientali (frutto degli studi perseguiti dal cantante in questi anni), ricerca gli incantesimi vocali dei Sigur Ròs e non dimentica le istanze contemporanee. La Volpe e Distante assecondano questo rinnovamento attraverso il riempimento delle forme: questo si compone di arredamenti musicali dove gli effetti di elettronica giocano una parte importante, rimandando ad istanze downtown neyorchesi e soprattutto alle sonicità di molta parte dell’attuale jazz nordico. Alla fine è come se Sinatra fosse stato combinato con Jònsi Birgisson o Arve Henriksen. Un planetario esempio di creatività progettuale.
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