Il problema della percezione della musica in rapporto alla memoria e alla possibilità di creare immagini attraverso il filtro dell’ascolto musicale è oggi ampiamente trattato anche con mezzi diversi: ognuno di noi ha una sensibilità emotiva (quella che ci fa apprezzare a dismisura un brano musicale dandoci un segnale non sempre affidabile nel tempo) ed una capacità “creativa” di costruire stabilmente nella mente le proprie immagini sostenute da un filo conduttore tra percezione musicale e la formazione delle immagini mentali.
Qui vi segnalo due compositori di origini danesi che sottoscrivono questo principio con prospettive diverse.
Senza confonderlo con il Karl Age danese, il compositore più importante delle isole Faroe, Sunleif Rasmussen, è certamente un naturalista della composizione; la sua prima sinfonia “Oceanic Days” pubblicata in versione definitiva nel 1997, rimane ancora oggi un ottimo esempio di aggiornamento ai canoni della sinfonia nordica nata dagli anni cinquanta in poi. E certamente costituisce ancora oggi un canale affascinante di approfondimento della sua musica che si dirama costruendo spesso variazioni tematiche partendo da elementi di essa: in un certo senso quell’opera descrittiva della realtà naturale, che è stata anche filtrata con le vicissitudini della musica contemporanea, mai ha perso quel contatto diretto tra l’oggetto da descrivere e la capacità di evocarlo attraverso la musica. Rasmussen, nel presentare distese di suoni che si confondono tra un senso filologico del mistero e ricerca di un accecante sublimità, è gia una realtà nel cercare quei collegamenti tra musica, canto popolare, poetica nichilista e materiale timbrico da esibire anche in forme spettrali (più evidenti nel naturale bacino dei suoni degli archi). Il suo concerto per sassofono “Dem Licht entgegen“, misura anche uno spazio musicale jazzistico (agli esordi Rasmussen era un pianista jazz) che si incrocia con quel senso di tramortimento temporale ricercato per fornire la sensazione estatica. Rasmussen piace proprio perchè ci lascia fluire dentro il potere dell’evocazione (qualcosa che, come detto, non è visibile tout court nella musica, ma è principio indiretto che lega la nostra condizione neurale al ricordo di un fatto o di una sensazione), e la sua ultima raccolta di composizioni dedicata alla chamber music, “Motion/Emotion“, ne è un’ampia dimostrazione: due ottime composizioni del periodo iniziale del compositore perfettamente in linea con l’ascendenza nordica (“Cantus Borealis” e “Vetrarmyndir“) legati da alcuni “Andalag” divisi tra istinti melodici poetico-paesaggistici e matrici seriali, assieme alle recenti composizioni “Motion/Emotion” (che fornisce una nozione dinamica di descrittivismo naturalistico) e a “Four Gardens“, composizione per ensemble riferita al poeta William Heinesen di The madman’s garden, in cui, protagonista il pianoforte, si assiste ad una perdita di coscienza strumentale che getta le sue basi nell’obliquità delle sostanze sonore del pianismo americano degli ultra-modernisti con tante inflessioni jazzistiche.
Completamente opposto negli intendimenti è Rune Glerup (1981), giovane compositore danese che giunge alla sua prima incisione per la Dacapo R.: Glerup vuol fornire una chiave di lettura musicale basata non su un presunto potere evocativo della musica, ma fisico. Se si evita di considerare la musica una semplice narrazione di eventi e si dà credito al suono profondamente coinvolto in uno spazio materiale, si otterranno risultati migliori. Glerup ha studiato composizione e musica elettroacustica in Francia e Germania, in ciò differenziandosi da molti suoi colleghi che sono rimasti in patria, magari distraendosi dal condurre una carriera con apporto innovativo; Glerup è assolutamente moderno, condividendo la passione per le arti visuali e per l’elettronica vista come prospettiva di un’estetica a sè stante da affiancare alla musica acustica tradizionale. La sostanza della sua musica si basa sull’esplorazione degli oggetti, un’esplorazione musicale grezza, tesa a presentare quegli oggetti come palpabili, in rilievo, evitando di farli assumere solo ad evocazioni transitorie del nostro pensiero. Per far questo sono quindi importanti le dinamiche tra gli strumenti, il loro grado di forza (più o meno misurato nella sua intensità); nel caso poi di Glerup le interazioni sembrano quasi seguire un modulo, o come dice lo stesso compositore, un principio base minimale di ripetizioni di patterns: è una scrittura che nei “Dust Encapsulated #1 e #2” trova la sua massima espressione, quella che vede la ricerca musicale tentare la sovraesposizione sonora, una rappresentazione energica di cui nell’Europa contemporanea c’è già traccia. Sebbene è difficile credere che queste creazioni si fermino al fattore musicale e non cerchino in nessun modo la collaborazione neurale per poter provocare capacità evocative di un paesaggio sonoro ben delineato, la scrittura di Glerup è senza dubbio una delle cose più interessanti che provengono dalla Danimarca.