Dalla famiglia Gordon/Wolfe scorrono alcune delle migliori ed attuali tendenze del minimalismo: non si tratta solo di riconoscimenti effettuati da istituzioni accademiche o giornalistiche, ci sono molte idee che essi riescono a far convivere. Impegnati su più fronti operativi, i due compositori americani continuano a tener desta l’attenzione su un genere che dopo circa trent’anni di sviluppo è entrato nella naturale fase di consolidamento, creando quella nicchia (anche abbastanza grande) di fruitori che supportano in maniera ciclica musica ed eventi; non c’è solo una struttura orchestrale tutto sommato riferibile al minimalismo di Glass o Reich, poichè il post-minimalismo della generazione successiva ai citati ha insegnato che vi erano spazi enormi di approfondimento: uno di questi è il risvolto massimalista che invero, Michael Gordon e Julia Wolfe hanno coltivato con più parsimonia rispetto ad altri illustri colleghi compositori operanti nello stesso ambito. Tuttavia questa sembra una strada più seguita e con nuove definizioni di principi.
Julia aveva scritto nel 2007 “Lad”, un lavoro imperniato su 9 cornamuse tendenti alla sovrapposizione: un lavoro diverso dal suo clichè che invece segue regole creative ed organizzative ben precise. In “Lad” le strutture ripetitive perdevano quel carattere esplicativo che di solito caratterizza una prova minimalista per creare un’esperienza d’ascolto simile a quella ricavabile da un cd di drone music. Tuttavia sarebbe un eufemismo pensare che si possa essere in territori musicali abbordabili come relax o di puro piacere uditivo; gli scopi forse sono molto più ampi e la dimostrazione di una ricerca spirituale o da trance la diede Gordon qualche anno fa quando scrisse “Timber”, un pezzo composto per 6 percussionisti di wooden simantras (uno strumento percussivo di origine greca scoperto da Xenakis), disposti ad esagono e risuonanti nel rispetto del phasing ritmico; la complessità ritmica nascondeva intenti insospettabili.
Oggi arriva probabilmente il capolavoro di questo ingegnoso spirito teso a scovare sonorità aggiuntive da nuovi strumenti o da strumenti ritenuti secondari: “Rushes”, composizione scritta nella cornice di incoraggiamento del Bassoon Project, un progetto aperto all’incontro accrescitivo tra fagottisti, ne è la prova. Tra i gruppi formatisi in favore dell’iniziativa, che prevede studi, rappresentazioni e workshops, quello tenuto dalla fagottista Dana Jessen (i Rushes Ensemble*) ha avuto l’onore di performare e registrare su cd la composizione di Gordon per 7 fagotti, con durata concertistica, alla ricerca di tutte le possibili sfumature armoniche derivante dall’unione perfettamente pianificata degli strumenti. L’impasto sonoro è qualcosa che quasi sorprende perchè distacca le nostre cognizioni della regolare timbrica dello strumento in una maniera che non siamo stati abituati ad ascoltare nella musica (classica e non) e, d’altronde, non ne conosco molti di tentativi tesi a massimizzare i fagotti in questo modo. “Rushes”, a differenza di tante altre composizioni che hanno timore di spingersi oltre le risapute dinamiche del minimalismo classico, mostra il coraggio della varietà delle soluzioni che permette di superare i confini ideologici ed accademici finora conosciuti e di dare una mano ulteriore a quel processo di avvicinamento tra consuetudini minimali e sovraesposizione degli strumenti cominciato già molti anni fa e ancora passibile di sviluppi.
Nota:
*Questi concentratissimi e bravissimi strumentisti sono: Jeffrey Lyman, Dana Jessen, Michael Harley, Maya Stone, Rachael Elliott, Lynn Hileman, Saxton Rose. Li puoi vedere in una perfomance dal vivo, qui.