Scrivere composizioni per chitarra elettrica nella musica contemporanea è fatto relativamente recente. La storiografia musicale prende Gruppen di Stockhausen come primo esempio in cui compare lo strumento, ma in verità il riferimento è soprattutto legato ad una semplice introduzione negli apparati orchestrali e molto meno per il suo protagonismo (1). In realtà le cose sono cambiate più con Morton Feldman (che nel 1966 scrisse The Possibility of a New Work for Electric Guitar, una composizione andata perduta e che Christian Wolff ha cercato di ricomporre come Another possibility) in cui si prefiguravano nuovi orizzonti e nuovi studi per la chitarra elettrica. Con Feldman si è compiuto il primo passo essenziale per trasformare lo strumento da semplice coloratura a veicolo di espressione singola al pari di qualsiasi altro strumento musicale.
Negli anni sessanta/settanta la deflagrazione della chitarra elettrica nel rock e nel jazz ha decisamente messo sotto tono i silenziosi oggetti d’arte che provenivano dal mondo dei compositori: qualcuno, poi, come Zappa cercava anche di mettersi nel mezzo. Ma quello che è peculiare di tutta la produzione chitarristica contemporanea e non, è che ciascun artista si è mosso nel solco delle proprie visuali stilistiche (tranne rarissime eccezioni come quella di Tristan Murail che pur essendo uno spettralista, non uso la chitarra elettrica alla ricerca di armonici). Se Feldman era atemporale, compositori minimalisti come Reich, Branca o Chatam, rispettando le loro prerogative di stile e le loro competenze nel campo della ripetizione, creavano nuove estensione per la chitarra elettrica, concentrandosi sul phasing (giocato con nastri o live electronics), sulla sovraesposizione (si pensi agli esperimenti multipli con più chitarre di Branca fino ad arrivare alle 100 di Chatam) e la microtonalità.
L’elettronica avanzata delle manipolazioni al computer fornì a Dufourt l’alibi per poter scrivere alcune splendide composizioni lavorando sulla trasformazione dei suoni della chitarra elettrica, facendo un lavoro chiaramente diverso da quello dei minimalisti americani; si sviluppò in quegli anni una vera e propria indagine timbrica che investiva lo strumento con espedienti differenti: si cominciò a sperimentare nuovi suoni incrementando le conoscenze sul feedback o sulle modulazioni grazie agli effetti delle pedaliere, sconvolgendo la pratica di esaltazione quantomeno dei chitarristi elettrici rock. Nell’epoca in cui il ritardo e i riverberi usati nelle produzioni U2 da Eno e The Edge e di tanta musica ambient divennero popolari, i compositori contemporanei ne presero coscienza intuendo l’uso “psicosomatico” di essi: i primi a carpire quel segreto nascosto tra le corde videro una cordata europea alla ribalta che univa la creatività del nostro Romitelli con quella di alcuni compositori germanici (Lang, Essl, Ablinger): le composizioni facevano uso di aggeggi applicati alle corde per creare nuove e profonde risonanze, si materializzavano le linee spezzate profuse da movimenti di inserimento o disinserimento dei jack amplificativi e soprattutto l’idea era quella di rappresentare/sconfiggere la brutalità/alienazione degli atti quotidiani grazie ad una composizione forte, robusta, con un profilo che doveva rappresentare in qualche modo la sintesi del progetto. Era qualcosa che andava incontro ad un rinnovato senso accademico dei giovani compositori, la cui generazione era vissuta all’ombra del rock e del jazz (i generi che avevano consacrato lo strumento).
Se per completezza si ricorda che anche gli improvvisatori liberi continuavano a far uso di tecniche non convenzionali e di oggetti che preparavano lo strumento, non si può fare a meno di tracciare una divisione della scrittura contemporanea in due oggettive diramazioni applicabili al concetto di “pulizia” del suono: sporcizia e pulizia che sia, tale distinzione divide oggi anche gli obiettivi degli artisti in termini di innovazione, poichè sono in molti a pensare che per il suono “pulito” ci sia poco spazio.
Al riguardo l’affermazione di Alessandra Novaga, chitarrista nata per chitarra classica ma ormai da tempo devota a quella elettrica, sul concetto di innovazione è emblematico: in un’intervista a Musica Jazz nel marzo di quest’anno dichiarava “…..Non sopporto più i post minimalisti e in generale tutto quel filone che oggi è tanto in voga in ambiti classici che operano con l’intento di divulgare innovazione. Non credo in un’innovazione che preveda notazioni esatte e ritmi dati, credo che ormai la strada senza ritorno sia stata aperta quindi ognuno è libero di fare quel che vuole basta che non racconti che sta innovando. Credo che ognuno sia responsabile del proprio percorso nel senso che per me l’arte in generale ha senso solo quando un’opera x ti cambia, ti rende diverso da come eri prima……”
Alessandra ha appena pubblicato il suo primo album monografico “La chambre des jeux sonores“, dove ha espressamento richiesto ad alcuni compositori di scrivere delle composizioni per lei, che le permettessero di avere un ampio grado di libertà nelle parti improvvisative: con una sottintesa aderenza al movimento downtown newyorchese, Novaga (che ha suonato con Elliott Sharp ed eseguito la versione integrale dei Books of Heads di Zorn) si dibatte su uno stile composito, che si indirizza all’empasse della free improvisation svolta con mezzi ed idee personali, in ogni caso evocativa sia se si tratta di materia che di una sensazione: se Erosive Raindrops deve molto al filone citato, In memoria di Mussida raggiunge gli stessi scopi di un phasing fatto con tecnica diversa: il contrappunto è creato da un gesto profuso sul dorso della chitarra, ma la scordatura ricorda quel flusso organico cangiante del Well Tuned piano di La Monte Young.
Paula Matthusen, compositrice americana tutta da scoprire, offre la sua Collaborating objects, che si pone come il migliore tentativo di andare a caccia di dimensioni, quelle invisibili che i suoni vogliono commentare: ha dei punti in comune con le divagazioni a coppie di chitarra/rumori di strada di Ablinger o di quella sottile e piacevole incoscienza di alcuni passaggi dell’Ingwe di Georges Lentz, che utilizzava le frequenze radio registrate di fianco alla chitarra, sebbene qui la realtà è molto più intima e frammentariamente misteriosa. Il roboare surreale di Untitled, January proietta la Novaga dalle parti dei musicisti drone.
La più soddisfacente chiave di lettura di La chambre des jeux sonores è quindi da scovare nella ricomposizione dei singoli temi che formano un intero, perchè i vari pezzi uniti tra loro ci restituiscono non solo l’esatto approccio musicale di una musicista che naviga nei territori dell’incarnazione delle realtà immateriali, ma anche un’ambiziosa voglia di incominciare ad approfondire campi di intersezione ancora esplorabili tra le vibrazioni del suono (la sua percezione) e le modalità tecniche utili per ottenerle, che restituiscano in ultima analisi il messaggio fondamentale dell’arte, ossia quella di trasmettere contenuti emotivi.
Note:
(1) al riguardo oltre al Gruppen di Stockhausen del 1955, vengono citate le infiltrazioni orchestrali di George Crumb (Songs, drones and refrains of death del 68), di Henze del Versuch uber Schweine (1968), di Andriessen del De Staat (1972), di Lachenmann del Fassade, fur grosses orchester (1973).