Quello che ha creato il sassofonista Davide Lorenzon tramite l’etichetta autogestita della Aut Records è qualcosa che è ordinario e speciale allo stesso tempo: è ordinaria l’impresa di costituire delle aggregazioni di musicisti in possesso di visuali comuni, fornendo materiale d’espressione ad un nucleo attivo, ma è speciale perchè è uno dei pochi esempi di delocalizzazione del nostro jazz all’estero; Lorenzon, con molta compostezza, sta realizzando lo scopo di dare visibilità ad un progetto specifico, attuato nell’impropria periferia dell’improvvisazione, in cui mettere in evidenza le ultime tendenze di essa: la particolarità (condita con il dissapore) è che il sassofonista veneto ha risucchiato molti valenti jazzisti/improvvisatori italiani (non solo della sua area geografica), facendo dell’esperienza condivisa un motivo di elevazione e crescita degli obiettivi. Lorenzon ha scelto sede a Berlino per questa sua avventura e ricordo i miei auguri quattro anni orsono quando il lavoro stava iniziando. Oggi può contare su un’organizzazione condivisa con Bob Meanza alla direzione artistica e al supporto di Cavenati, Meucci e Cioni, e su una rete di musicisti importanti non solo italiani, con una duplicata speranza di creare rinnovamento nel campo improvvisativo. Tra gli italiani l’AUT ha potuto contare sulle aderenze di Luciano Caruso, Nicola Guazzaloca, Edoardo Marraffa, Riccardo Marogna, Pablo Montagne, Giorgio Pacorig, Luigi Vitale, Ivan Pilat, Beppe Scardino e tanti giovani promettenti, mentre emergono le figure di Tristan Honsiger, Matthias Schubert, Alison Blunt, Tim Trevor Briscoe, Vincent Domenech, Anna Kaluza, Annette Giesriegl, Manuel Miethe tra quelle europee. Aldilà delle differenze stilistiche di ognuno di loro quello che risalta è la particolare modernità in cui si vuole portare l’improvvisazione: una fresca rivisitazione di quello che può offrire l’improjazz lontano dai clamori del jazz tradizionale e molta vocazione nel cercare di intravedere nuovi linguaggi.
La prima edizione dell’ Aut Festival aspira quindi a costituire il primo passo verso un primo embrione di visibilità, con tutte le carte in regola per mostrare le principali dimensioni dell’improvvisazione non ingabbiate in una ristretta logica jazzistica e, probabilmente, da qui in poi le implementazioni continueranno ad aumentare. Il festival si articolerà in 4 giorni tra l’Altes Finanzamt e il Noyman Miller tra il 25 e il 28 settembre: sottolineato come Languages of unheard, sarà l’occasione per celebrare questa comunione ideale di intenti: tra i primi a farlo il gruppo seminale di Lorenzon, i Kongrosian, ossia un terzetto di fiati composto assieme a Alberto Collodel e Ivan Pilat, che soprattutto nella effervescente prova del primo numero dell’etichetta Bootstrap Paradox (in cui si univa anche un eccellente clarinettista come Oreste Sabadin), hanno dato dimostrazione delle personali scansioni ritmiche impostate, basate su un unione tra una sorta di phasing alla Reich trasportato nel settore jazzistico e le migliori polifonie delle bands di Ottolini. Il terzetto, inoltre, ha avuto anche la possibilità di suonare con uno degli improvvisatori più intelligenti della Germania, il sassofonista Matthias Schubert, che da tempo studia i connubi possibili tra la contemporanea colta e l’improvvisazione libera.
Nella consapevolezza di un’improvvisazione basata sul lato sperimentale verrà imbastito il set del sassofonista Piero Bittolo Bon, che presenterà il suo Spelunker, un set totalmente ameno dal punto di vista tecnico e che riprende certi esperimenti analoghi fatti negli Stati Uniti, in cui l’amplificazione ed alcune interfacce elettriche trasformano il suono di un sax vissuto nelle sue parti intime. Per un rapido approccio Piero ha anche pubblicato un video-concerto in materia.
Rivisitazioni particolarmente attraenti e moderne del jazz più conosciuto vengono intraprese nei progetti dei Bug Jargal (Caruso e Pacorig risvegliano il Davis elettrico con nuovi “alfabeti” musicali in una nuova versione in duo (vedi qui la mia recensione del Bug Jargal 1, una perla registrata nel 1995); così come il trio Small Choices (Giacomo Papetti/Gabriele Rubino/Emanuele Maniscalco) che cerca di trapiantare lo spirito mistico della contemporanea in una struttura improvvisativa. Un’altro piatto forte è il live set dell’Hanam Quintet, in cui figurano la violinista Alison Blunt e il sax di Anna Kaluza con la presenza di Tristan Honsiger: qui la novità sta nelle risoluzioni degli armonici e in una riorganizzazione speciale del movimento d’assieme dei partecipanti. (vedi qui).
A metà tra le aggressioni ritmiche e l’elettronica saranno le esibizioni dei Toxydoll, un quartetto composto dallo spagnolo Vicent Domenech (vicino a Agusti Fernandez), la batterista Olga Nosova, il chitarrista Alberto Cavenati e i giochi intelligenti di tastiera di Bob Meanza: nella più assoluta libertà di espressione, i quattro fanno pensare a certe evoluzioni dei gruppi di Tim Berne. Cavenati si esibirà anche in trio con altri due musicisti residenti a Berlino, la pianista giapponese Rieko Okuda e il contrabbassista finlandese (ma statunitense di adozione) Annti Virtarannta: i tre daranno vita all’esibizione degli Schematic, un inedito dialogo tra scrittura ed improvvisazione che esplorerà la parte cameristica dell’improvvisazione. Mentre Bob Meanza presenterà un progetto audio-video particolarmente ardito con Marco Mendeni e il sitar di Filipe Dias De, un improvvisatore realmente anomalo dello strumento indiano, suonato con oggetti ed in stile improvvisativo.
La parte elettronica sarà ancora più trattata grazie all’esibizione dei Schrodinger’s Cat, un trio formato da Riccardo Marogna, Paolo Brusò e Niccolò Romanin, in cui i riferimenti al cosmo e alla teoria del fisico austriaco non nascondono l’interesse verso un certo tipo di improvvisazione condita da molti effetti (strumentali e non) tesi a dirigere la performance verso un senso del mistero, della descrizione scientifica e dando un giusto risalto alla spazialità richiesta dall’ambiente musicale che spesso richiama le indimenticabili nicchie di suono del Garcia anni sessanta. Mentre totalmente invaso dal digitale sarà l’esibizione del duo Raccoglimento Parziale di Andrea Giachetti e Stefano Meucci, in procinto di pubblicare “Homoeterogeneity” (un disco in vinile di sole 300 copie), dove a farla da padrone sono le tecniche glitch, quelle che tanto hanno attecchito in terra berlinese: ricostruzioni che riportano in auge flussi senza coscienza e la fantascienza di Androide.
La chiusura della tre giorni musicale sarà affidata ad un’improvvisazione di gruppo in cui parteciperanno quasi tutti i musicisti coinvolti nel festival.
Imperdibile!
Imperdibile!