Musicista in perenne rinnovamento, Arve Henriksen può essere considerato, senza dover essere smentiti, uno dei factotum dell’attuale scena jazzistica norvegese. E con riferimento al termine jazzistica ci sarebbero da fare ulteriori specificazioni ed allontanamenti del caso.
Il leader dei Supersilent, prima e fruttuosa esperienza del nordico nel mondo immacolato delle nuove avanguardie musicali del Nord Europa, ha cercato uno sviluppo coerente anche nella carriera solistica, poichè è evidente che in tutte le prove di supporto alle registrazioni o concerti dei suoi colleghi non poteva avere la stessa voce in capitolo. La particolarità del trombettista è suddivisibile in più fattori: da una parte, a livello strumentale, c’è quella forte influenza che vede Miles Davis gettare semi nel periodo elettrico e Jon Hassell raccogliere l’intensità e la sideralità dei suoi suoni alla tromba; quest’ultimo, poi, si è preoccupato di trovargli una copertura geografica e tramite le modificazioni possibili dell’elettronica l’ha resa più espressiva; dall’altra, a livello tematico, il patchwork si allarga al fattore “naturale” e “tradizionale”: il primo riguarda il potere della natura di instillare ispirazione per una combinazione di suoni e la sua Norvegia era piena di queste colorazioni creative: si pensi a “Strjon” (il suo terzo album solista), una contrazione speciale del villaggio Stryn, un paradiso di montagne, acque e fiumi, che è stato uno dei suoi bombardamenti giovanili al cospetto dei suoi occhi; il secondo tema riguarda il più ampio coacervo delle consuetudini di un popolo, la cui antichità musicale si è svolta intorno a leggende di uomini senza ritorno e battaglie per la supremazia territoriale e religiosa. Riguardo ai due aspetti Arve ha anche trovato un corrispondente strumentale: ha svelato le affinità dei confini orientali, rimanendo attratto dallo shakuhachi giapponese (che, grazie alla tecnologia, ha riprodotto alla tromba) e per vincere l’omertà degli oggetti si è avvicinato alla tradizione del violino hardanger (che sembra sia il suo presente musicale).
La succinta (finalmente un caso del genere!) discografia del norvegese vede l’esordio di “Sakuteiki” come un’infuatuazione per il mondo orientale, che si scopre molto più vicino di quello che si pensa. Una conferma che arriva anche dalla storia recente della Norvegia, le cui usanze musicali tradizionali, al contrario, hanno spinto tantissimi giovani giapponesi a recarsi in Norvegia per imparare ad usare i loro strumenti (tra tutti proprio il violino hardanger). Il difetto di “Sakuteiki“, un disco strutturato a forma di haiku sonori, è solo quello di avvicinarsi troppo al mondo orientale, circostanza che viene subito rimessa a fuoco nel suo capolavoro, il seguente “Chiaroscuro“, in cui Arve mostra in maniera evidente tutte le sue qualità: dall’uso quasi “umano” dell’espressione della tromba, al canto da “omignolo” che chiude il cerchio con l’esperienza proveniente dal campo rock dei Sigur Ros, i leggeri e raffinati campionamenti svolti con l’aiuto di Jan Bang, tutto riporta il carattere nostalgico della sua terra e una moderna rappresentazione della realtà musicale che è osmosi tra elementi distillati e speciali della sua personalità.
“Chiaroscuro” è il primo episodio di un trittico perfetto, quello ottenuto con i successivi “Strjon” (molto più evoluto dal lato tecnologico e curato nell’intellegibilità delle immagini) e “Cartography” (una vera e propria mappa di suoni ricercati e moderni, divisi tra elettronica, jazz, influssi ambient e camerali). “Places of worship” dello scorso anno, approfondisce i legami della sua musica con la poesia dei luoghi, ma è probabilmente l’inizio di un nuovo percorso creativo che lo vede impegnato nel far risaltare sempre più la relazione tra la musica e i luoghi storici, religiosi o archeologici, allo scopo di trovare un’anima narrante attraverso i suoni. Andare sui posti e captare il pensiero degli uomini che lo hanno vissuto. Ciò viene messo in pratica con il doppio “Chron/Cosmic Creation 1-8“, che si basa su un accostamento tra campionamenti di varia natura, con uso più esteso di field recordings.
Quest’anno, in attesa della pubblicazione del nuovo Supersilent n. 12, Henriksen sembra aver cambiato ancora pelle, allacciandosi in maniera più evidente all’aspetto folk di cui si parlava prima.
“The nature of connections” è un progetto che era da tempo nella sua mente e che lo vede alle prese con una sorta di ricomposizione della tradizione del violino hardanger con le propaggini espressive della sua tromba. La collaborazione di un quartetto d’archi qualificato (Nils Okland è uno specialista dell’hardanger fiddle, in più Svante Henryson al violoncello, Gjermund Larsen secondo violino e hardanger, Mats Eilertsen al contrabbasso) filtra efficacemente il suo respiro nostalgico addensandolo nella stessa zona emotiva delle vicende tradizionali: l’hardanger fiddle è sostanzialmente un violino con più corde, in grado di rilasciare risonanze più forti; storicamente ha avuto un ruolo controverso, poichè si pensava che i musicisti che lo suonassero fossero in preda alle grazie del diavolo, e per questo motivo, fu bandito soprattutto da un punto di vista religioso. Non so se quest’aspetto abbia la possibilità di emergere dalla musica di Henriksen, ma se l’abbinamento archi classici-hardanger-tromba è svolto con equilibrio ed intelligenza, forse lo stesso lascia irrisolto un proficuo sviluppo da intraprendere con quelle pastoie della musica contemporanea di cui Arve è tanto affascinato.