“Someone killed the swan; Laments on South-eastern Europe” is addressed to an audience that goes beyond the borders of Serbia. But it’s not important just for the fact that it was recorded in a multinational label of improvisation; it is a definitive attempt to impose a music scene that is neglected by most of the press. Music is made to prove it, because it tends to achieve ideas and feelings, at times universal feelings, other times “local” feelings: there is a strong appeal to Garbarek’s sound (from which Boris tries to emulate the reflective part), but the improvisation’s conduction ignites sparks of old and new modal music, that clash with some inventions of contemporary music (those who are based on a frugal preparation of instruments). Maybe we are at a first step, but I would have had more courage in increasing the ethnic elements: so in this work, the only flaw is to think to do jazz without the loss of its basic ingredients.
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Nonostante ammetta la mia poca dimestichezza sul jazz serbo, è una considerazione più ampia quella che affronta il jazz di questi luoghi e cioè l’esigenza di sviluppare il jazz accogliendo istanze popolari nonostante la mistura sia diversa da paese a paese. Il processo di occidentalizzazione della musica ha avuto un effetto più visibile in stati come la Polonia o la Repubblica Ceca, mentre più guardinghi nell’assorbimento della musica afro-americana sono state nazioni come l’Ungheria, Romania e il resto della penisola balcanica. Tutti i musicisti coinvolti, quando non partecipi di un progetto specifico dedicato alle loro origini, hanno interpretato il jazz con elementi etnici diversi, specchio della rinnovata situazione della popolazione nelle proprie terre d’origine; soprattutto la pianura pannonica si è trovata a dover affrontare un forte rimescolamento. Ma l’idioma sfaccettato di proporre un jazz in linea con elementi tradizionali sparsi qua e là (spesso anche lontani dai luoghi di appartenenza) è servito anche alla loro sopravvivenza economica. Nell’area dei Carpazi e per analogia in quella balcanica sono stati recepiti i fondamenti della musica afro-americana senza rinnegare l’impronta nazionalistica, ma aldilà di quanto si possa pensare e nonostante non manchino episodi che suscitano perplessità (si pensi alle brodaglie etniche simil-Brasil di artisti come Tamara Obrovac), si può affermare anche che il jazz di questi paesi sia stato filtrato dell’abbondante letteratura musicale degli ultimi cinquant’anni; non è solo la tonalità che è stata reimpostata, ma anche la preziosa disciplina di Cage, nei suoi aspetti pratici (segnatamente le tecniche improvvisative), è entrata a pari grado con la modalità dei temi tradizionali di quei paesi.
In Serbia uno di quelli che si sta facendo portatore di un rinnovamento che sta tra il puro e la somma post-moderna è il compositore e sassofonista Boris Kovac, che nel suo pensiero sembra molto deciso nell’impostare una nuova formula intelligente di jazz che passi dai percorsi dell’improvvisazione amica della tradizione. Tra i vari progetti del serbo (musica da camera per la danza, colonne sonore di films, folklore multietnico) quello di stretta consumazione jazzistica è il quartetto messo assieme sotto il nome di Ultima Armonia, in cui sotto il fatale significato del termine trovato per il gruppo, si celano altre tre improvvisatori dell’area, ossia il pianista Stevan Kovac Tickmayer (autore di un paio di registrazioni di rilievo, destinate ad un pubblico europeo, alla ReR Megacorp) e una giovane sezione ritmica che fa parte del suo entourage (Milos Matic al cb e Lav Kovac alla batteria).
“Someone killed the swan; Laments on South-eastern Europe” è il primo album di Boris ad essere indirizzato ad un pubblico oltre i confini della sua terra d’origine, e non è importante solo per il fatto di essere stato registrato presso una multinazionale dell’improvvisazione; è un tentativo definitivo di imporre una scena trascurata dalla gran parte dei mezzi di stampa. A questo scopo c’è la musica a dimostrarlo, che realizza idee e sentimenti a volte universali altre volte locali: dal punto di vista stilistico c’è un forte appeal verso le circolari virate nostalgiche del sound di Garbarek (da cui Boris cerca di introitare la parte riflessiva); ma se il clima spesso donato dal quartetto si fonda su ambientazioni sperimentate, è la conduzione dell’improvvisazione che risalta lavorazioni su modalità che si scontrano con le strozzature previste della contemporaneità (fondata su una parca preparazione degli strumenti). In alcuni momenti emergono anche elementi della “vecchia” e mai dimenticata improvvisazione, quella pre-barocca. Forse siamo ad un primo step, ma quei caratteri di etnicità di cui parla Boris andrebbero ancora esacerbati nel loro insieme con un pò più di coraggio: qui l’idea è di fare del jazz senza che esso ne perdesse i suoi ingredienti di base.