Lukas Ligeti/Thollem McDonas: Imaginary images

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In “Imaginary images” we have two musicians who put aside the research, the frills of the composition or the musical traditions, and confront one another solely on the obvious reality of their instruments.
Of course “Imaginary images” has the advantage of building the interaction on the descriptiveness of emotions: in this sense, the two musicians are naturally unbalanced on this ability. The imagination has no subjective limits but the musicians can guide the listeners to definite feelings; in the internal notes Mark Keresman underlines many of them, but there is one that I perceive more of the others, corresponding to the general mood of collaboration: the research of “transit” moments, the phases of our lives that do not seem to be necessary, a musical zone punctuated by the sounds in a constant state of waiting. Monk was a master of these secondary sub-mental excursions. It’s a refined and dynamic mist that can be heard: a confused Debussy, lost in the show of a jazz duo in a local of New York City, provides many interpretations of the paths to take, they are polarized thoughts to share with the musicians and that invite us to accept their spectacular places (Minds fill in and Advance in Standstill).
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Il linguaggio dell’improvvisazione a duo tra pianoforte e batteria solleva dubbi sulla loro posizione gerarchica quando la batteria deve lavorare solo sulla grancassa e qualche rullante. Dal mio punto di vista si trova in una situazione di marcata soggezione rispetto al piano, sul piano delle possibilità di creare una vasta gamma di suggestioni a contenuto emotivo che vadano oltre il conosciuto aspetto ritmico. Per superare questo empasse molti batteristi hanno cercato nel drumming pittorico o pirotecnico le chiavi della soluzione, non sempre risolvendo il problema. In questo nuovo duo tra il percussionista Lukas Ligeti e il pianista Thollem McDonas il problema viene esorcizzato ricorrendo ad una formula ampia di comunicazione improvvisativa in cui il piano in molti momenti cerca di diventare un alter ego della batteria, utilizzando le sue funzioni percussive; in “Imaginary images” ci sono due generali della musica che, lasciando da parte ricerca, orpelli compositivi e tradizioni, si confrontano a nudo sulla sola evidente realtà dei loro strumenti.
Di Thollem vi ho già parlato ripetutamente in questo blog e ne ho già decantato stile e progetti, mentre di Lukas non ho avuto mai l’occasione di farlo. Figlio del grande Gyorgy, Lukas è austriaco e da tempo è uno sperimentatore della batteria con tanto di matrice intellettuale. Ha registrato pochi dischi (tra cui emergono i due completamente pensati da lui stesso, ossia Mystery System e Afrikan Machinery per la Tzadik), ma ogni suo progetto è utile per fare passi avanti nel futuro della batteria e del settore percussivo. E’ in questo posto che si realizzano gli elementi fondamentali del suo pensiero, in cui l’importanza accordata all’improvvisazione assume un ruolo essenziale: grazie al suo contributo Lukas sta tentando di mettere assieme cocci della matrice storica percussiva, incrociando pezzi di suono tradizionale con le sponde offerte dalla tecnologia dei computers e dai campionamenti dei suoni. In Afrikan Machinery e alcuni brani di Mystery System c’è un lavoro fatto sul campo con musicisti tradizionali di vari paesi africani ed orientali e la trasposizione di questi elementi (chiaramente deformati dalla visuale moderna dell’informatica) in un idioma nuovo, il prodotto etnicamente più avanzato, che diventa delizia intellettuale e croce del conservatore di tradizioni. Ci sono realmente pochi musicisti come lui che riescono ad essere visionari e gradevoli allo stesso tempo sul comparto percussivo.
“Imaginary images” ha il vantaggio di costruire l’interplay complessivo sul carattere descrittivo delle emozioni: in tal senso i due musicisti sono naturalmente sbilanciati su questa capacità. L’immaginazione non ha limiti soggettivi ma il suo materializzarsi musicale può condurre l’ascolto verso sensazioni ben precise; nelle note interne Mark Keresman ne sottolinea molte di esse, ma c’è ne una che io avverto di più e che corrisponde all’umore generale della collaborazione, ossia quella di cercare i momenti di “transito”, quelle fasi della nostra vita che non ci sembrano necessarie, scandite da suoni in perenne stato di attesa. Monk era un maestro di questi stati secondari sub-mentali. E’ raffinata e dinamica foschia quella che si ode: il solito dislocamento del Debussy confusosi nello show di un duo jazz in un locale di New York, fornisce molte chiavi di lettura delle strade da percorrere, si polarizzano pensieri che scopriamo in comune con i musicisti e ci si rassegna ad accettare luoghi introversi di compiuta bellezza. (Minds fill in o Advance in Standstill).
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.