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Il trombettista Peter Evans sta provando che le capacità narrative del jazz non sono affatto tramontate: con il suo quintetto (che si dimostra probabilmente l’esperimento più genuino tra quelli effettuati) riesce a trasmettere stati descrittivi che riepilogano situazioni scelte nella fitta rete letteraria: dopo “Ghosts” Peter ha preso in prestito il famoso racconto di fantascienza di Frank Herbert, per intitolare il suo nuovo lavoro, cercando di dargli dei connotati che potessero far pensare alle storie futuristiche in subdola motilità mentale. In “Destination: Void” si consuma una finzione scientifica che all’epoca della novella era qualcosa di irrealizzabile nel breve: oggi la creazione di intelligenza artificiale o ancor meglio la clonazione di esseri umani al servizio di menti sovrumane sembra essere una realtà a cui purtroppo dobbiamo già rivolgere lo sguardo e di cui non conosciamo la portata e le conseguenze. Il tetro Lachenmann ha da tempo teorizzato un postulato di questa teoria che si riscontra nell’annullamento dell’io compositivo e della personalità dei suoni. Aldilà delle critiche che si possono muovere a questa affermazione, non sono pochi i musicisti che hanno sposato la tesi dell’annientamento umano e quella della spersonalizzazione dei suoni in favori di quelli di oggetti da animare.
La tromba di Evans diventa allora un flusso ad intermittenza che segnala situazioni scientifiche con un gancio ben coadiuvato nell’elettronica di un esperto come Sam Pluta, con un pianista in forte debito di preparazione dello strumento come Ron Stabinsky e con una sezione ritmica destabilizzata (Tom Blancarte e Jim Black): in “12″ si tributa Evan Parker cercando delle corrispondenze tra suoni e un’incontenibile attività enigmistica; “For Gary Ridstroem e Ben Burtt” richiami i principali sound designers della fantascienza cinematografica, così come le orbite sono il tema di “Make it so” in cui l’elettronica ed un jazz denaturato e frammentato lascia spazio ad aperture più “terrestri” che riportano un maggior equilibrio verso forme conosciute di free jazz. Sono comunque tentativi nobilissimi di aprire luci e studiare l’oscurità di certe configurazioni allo scopo di lasciare impronte, superare l’annichilimento stilistico di Lachenmann conoscendone le sue variabili.
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