La vena drammatica di Scott Walker venne inaspettatamente fuori con Climate of Hunter nel 1984: fu un bel cambiamento per un artista che negli anni sessanta aveva forgiato una specifica evoluzione di canto malinconico, una tipologia influente che diede probabilmente spunti notevoli per costruire le carriere di Bowie o più tardi di Rufus Wainwright. Passando dalla chanson tutta dedita a Jacques Brel ad una forma di canzone proiettata nell’opera e nella teatralità, Scott diede al suo timbro vocale nuove sembianze; la pop song intrisa di malinconia venne sostituita da un costrutto che non disdegnava affatto tendenze estranee alla musica pop/rock: in Climate of Hunter il Van Morrison orchestrale e meno impasticciato nel soul (con Van Hooke e Isham che erano elementi condivisi con la band dell’inglese) virava verso l’atonalità e in alcuni casi si confondeva negli spazi aperti dall’improvvisazione libera (Evan Parker lasciò uno dei suoi mirabili marchi di fabbrica al sax). Come spesso accade nella vita, Walker trovò una nuova strada quando nessuno più se lo aspettava e nonostante gli elogi della critica, si è per trent’anni crogiolato in lunghi periodi di silenzio (un fatto ricorrente nella sua carriera, ma che va preso in senso positivo per la coerenza dell’ispirazione) e che ha portato solo 5 albums tra cui alcuni capolavori (oltre a Climate of Hunter, direi anche Tilt e The Drift, in cui ha cementato questa nuova vena di poeta musical-drammaturgo. Come ha saggiamente evidenziato Dan Warburton, Walker scriveva canzoni imparentate con l’opera per farle gradire ad ascoltatori che non amavano l’opera: i suoi continui ed impliciti riferimenti con la cultura underground degli anni sessanta, con la letteratura della strada, e con le asperità della modernità musicale classica (Kurtag, Ives) evitavano qualsiasi empasse retorico.
Stephen O’Malley e Greg Anderson sono invece due chitarrististi di Seattle che hanno recitato una parte importante nella riscoperta recente del genere heavy metal: negli anfratti delle sue ramificazioni con altri generi e tramite diverse creature (tra le quali spicca quella dei Sunn O))))), O’Malley e Anderson hanno posto l’accento sull’uso in chiave psicologica della chitarra amplificata e distorta. Spingendo sull’acceleratore della sperimentazione creata dagli Earth, i due musicisti hanno costruito dei veri e propri droni cavernosi proiettandosi negli spazi più bui del malefico e cercando di materializzare con la musica la prospettiva infernale. Qualcuno li ha chiamati “monoliti” queste agghiaccianti rivisitazioni effettuate sul timbro dello strumento che col tempo hanno assunto forme realmente diaboliche: gli stessi musicisti hanno accompagnato l’esperienza strumentale con l’uso di arrangiamenti e di vocalità votate al lugubre e perfettamente in tema con un passeggiata dantesca (per rintracciare questi sensi rivolgersi a Black One). Dopo anni di infelice retorica, il tema della violenza e del lugubre espressi in forme musicali sta cominciando ad essere seriamente rivalutato in una nuova consapevolezza dove le spinte all’eccesso di suoni stanno peraltro già da tempo interessando anche il mondo della composizione classica (vedi quanto stava facendo Romitelli).
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“Soused” è in definitiva una riflessione di un uomo colto e maturo arrivato nella parte “alta” della sua esistenza: si interroga intelligentemente su di essa e si arroventa per la mancanza di risposte ma apre per l’ascoltatore autostrade di sapere in relazione all’approfondimento dei temi e del pensiero. Walker ha coniato uno stile musicale possente che è ben presente in alcune frange dell’attuale musica pop (si pensi per esempio all’influenza implicita fornita sul materiale di Antony Hegarty), e per essere coadiuvato in questa rappresentazione musicale, una rappresentazione che starebbe benissimo anche in un teatro con apposito ampliamento di attori e scenografia, egli certo non poteva che scegliere di meglio nei Sunn O))).