Spesso l’improvvisazione è fatalmente ignobile nel non restituire ad importanza gli attori che hanno contribuito a formarla: nel caso del trio organizzato dal pianista Gianni Lenoci, la considerazione è valida per i suoi due partners che hanno generato parecchi legami in Italia. Si tratta del contrabbassista Kent Carter, rimasto nel ricordo degli appassionati per le collaborazioni con la Jazz Composer’s Orchestra e soprattutto per essere stato il contrabbassista di riferimento di Steve Lacy negli anni settanta (Trickles and Troubles tra gli altri albums), e del batterista americano Billy Elgart, di cui si ricordano pochissime incisioni e il suo spostamento in Europa con la condivisione di molti progetti con jazzisti italiani. Cercando di togliere l’oblio e restaurare le certezze, Lenoci si avventura in un trio più tradizionale rispetto alle recenti escursioni nell’improvvisazione più radicale e si adopera per adottare quella magnetica e tattile magia dell’interplay da trio, evidenziando le caratteristiche che lo resero famoso, ma anche senza eccedere alcunché in leziosismi poco adeguati. Anzi “Plaything” è un ritrovato di raffinatezze e di oasi acustiche che non richiama (come ho letto da qualche parte) alla memoria gli anfratti impressionistici di Bill Evans (vedi le notevoli Spider Diagram o Drift), quanto le obliquità dei suoi modelli formativi (Paul Bley e Mal Waldron), anche se poi il piano di Gianni si comporta in tutt’altro modo stilisticamente; esso è anche teso al rapporto timbrico dei suoni e non tanto alle armonie, è come immaginare Waldron che si miscela alla tastiera con le propensioni di un Taylor (ma sarebbe un eufemismo dire anche che ci avviciniamo agli idiomi del re pianistico del free). E’ un interplay assolutamente più astratto e ricercato che viene assegnato alla grandiosità di brani come “Leeway“, dove i tre si inventano splendide soluzioni ai rispettivi strumenti accompagnando un tema che ricalca una perdita di coscienza magistralmente provocata da un incanto frutto anche di una preparazione al piano di Lenoci.
A novembre scorso l’etichetta discografica Rudi Records ha celebrato i suoi 4 anni di attività discografica: nata da un’idea di Massimo Iudicone, impegnato nel cercare di mantenere una casa eletta per i jazzisti che non hanno le identiche fortune ed attenzioni dei presunti big italiani del settore, in realtà ha ospitato jazzisti tutt’altro che secondari dal punto di vista della penetrazione commerciale. L’etichetta romana ha già diversi cds vincenti al suo attivo, e di questi ottimi lavori, su queste pagine se ne è già parlato: senza nulla togliere ad una generica ottima qualità di tutte le registrazioni, direi che senza dubbio il Live in Ventotene del tro Salis-Schiaffini-Kasirossafar, Black Novel del flautista De Mattia o il Viaggio al centro del violino di Parrini rappresentano le perle di caratura internazionale dell’etichetta.
In occasione del quarto anniversario Iudicone ha pubblicato tre cds molto validi e che vanno senza dubbio segnalati: innanzitutto il secondo volume di “Viaggio al centro del violino” di Emanuele Parrini, che però stavolta lo trova in compagnia di un sestetto di all stars italiane (Bittolo Bon, Tononi, Bolognesi, Mirra e Innarella): Parrini accoglie l’esperienza e la bravura dei partecipanti ben distribuendo l’improvvisazione tra gli strumentisti ed impostando i temi secondo i principi di “Ascension”: in presenza di un’evidente maestria nel saper istruire assoli e coordinare il caos di gruppo, “Viaggio al centro al violino vol. 2” offre un saggio di jazz di alto profilo, atonale e piacevolmente imprimibile nella memoria uditiva, a tratti anche esuberante. Non riesce a cogliere le sfumature che il primo volume dedicava specificatamente alla figura di Emanuele, ma è ugualmente valido sotto tutti gli aspetti.
Porta Palace Collective è invece un sestetto che ha preso forma durante le sessioni concertistiche del festival organizzato dalla scuola torinese di Arcote Jazz dal trombettista Johnny Lapio che ha sfruttato la presenza di Giancarlo Schiaffini per imbastire un giovane collettivo di improvvisazione che inserisce il suo impegno nel solco degli insegnamenti del trombonista: “Porta Palace Collective” nasconde piacevolissime sorprese, poiché rivela ufficialmente le idee improvvisative e la bravura solistica di Lapio (che lavora in pressante dialogo con Schiaffini), e finanche le potenzialità del resto degli elementi (Giuseppe Ricupero al sax tenore, Gianmaria Ferrario al cb, Ruben Bellavia alla bt e un efficace Lino Mei al piano) che presumo giovanissimi jazzisti della scuola, tutti musicisti con un affiatamento invidiabile: si tratta di un’improvvisazione che ha in sé una freschezza ed una fluidità di idee che sorprende, e che ci .fa capire come Schiaffini abbia evitato qualunque operazione di vetrina, puntando come sempre sulla qualità delle idee proposte e delle risorse.
Particolarmente riuscito è poi il terzo cds pubblicato dal Trio (mit) Marlene, un progetto del bassista Giacomo Merega con Michael Attias al sax alto e wurlitzer piano e Satoshi Takeishi alle percussioni: “The surface of an object” sfrutta un’idea di improvvisazione “pensata” che non è mai stata presente nelle rispettive esibizioni e stili dei tre musicisti. Merega, che fa presenza stabile nel quartetto di Soffiato a New York, è la naturale sostituzione del contrabbassista Herbert nel trio che quest’ultimo intrattiene proprio con Attias e Takeishi. Di Attias si conoscono le inflessioni yiddish del suo stile, così come di Takeishi si conosce il suo approccio morbido, ma delle quattro improvvisazioni che compongono “The surface of an object”, soprattutto le prime due (più lunghe nella durata) reintroducono una sorta di phasing strumentale, colpi di basso e note di sax spezzate che hanno lo scopo di seguire le ipotetiche vicende di uno scultore che organizza i propri materiali per dar vita alla sua creazione. E’ un percorso originale, forse migliorabile ma comunque poco seguito nell’improvvisazione che nelle forme presentate di regola dai tre musicisti si distanzia da questo sentiero per aderire a più rassicuranti avvicinamenti alla downtown music o a quella dalle virtù trasversalmente divise tra improvvisazione jazz americana ed europea.
Un’altra notevole celebrazione della contemporaneità mi sembra quella del duo bresciano Ermes Pirlo e Paolo Biasi (rispettivamente alla fisarmonica e basso elettrico): è stato appena pubblicato “Bellow’s training“, cd per la nBn, che è completamente inviso alle naturali evoluzioni melodiche della fisarmonica e che si pone sotto l’egida musicale delle operazioni migliori effettuate in Italia da Simone Zanchini; si va alla ricerca di armonie trasversali, discorsività basata su altri livelli, con scatti acustici, dinamiche misurate e pause risonanti, elementi da condividere con i potenti impulsi ritmici di Biasi. Trattato come un esperimento da laboratorio, questo progetto è diventato una realtà che può differenziare gli artisti e proprio al fine di dare una forma definitiva ad esso, i due hanno invitato il batterista Emanuele Maniscalco allo scopo di arricchire il disegno ritmico ed abbinare corrispondenti traiettorie percussive.
Continuando a mantenere fede ad una prospettiva di raccordo con i contenuti mitologici, il percussionista Massimo Barbiero pubblica un nuovo solo, stavolta sintonizzandosi sulla marimba. “Simone de Beauvoir“, frutto dell’appagamento del musicista nei momenti di tranquillità, ripropone temi del suo repertorio rivestiti della “nuova” luce ricevuta della marimba: la funzione di scansione immaginativa della società filosofica greca e dei regni poco idiomatizzati del presente, viene messa a fuoco soprattutto in operazioni come “Crono” o “Architrave“, dove viene represso un pericoloso istinto manieristico che pervade l’opera.
Massimo ha anche da poco pubblicato un nuovo episodio della saga Enten Eller, riproducendo su cd un concerto effettuato all’Open Jazz Festival di Bollengo lo scorso aprile: “Pietas” sembra sempre più riaffermare la leadership del batterista il cui pensiero compositivo costruisce l’ossatura e le rifiniture del sound del gruppo: l’esperienza degli Enten Eller ha un valore da sempre sottovalutato rispetto alla realtà. Operazioni come quella del gruppo di Barbiero rischiano oggi di essere viste come cioccolatini nostalgici, vittime rassegnate di quel passato anni settanta-style, che videro arte progressiva e jazz convulso in ritmiche rock essere le cartine di tornasole della musica di quegli anni. Ma gli Enten Eller possedevano una personale differenziazione che li distaccava sia dalle fragranze progressive che da quelle imparentate con le dinamiche rock: il jazz, suonato con bravura, intelligenza e dedizione è stata l’arma della diversità e Pietas oggi dimostra che nell’attuale standardizzazione del panorama prog e jazz-rock mondiale, il gruppo può essere in grado di reggere qualsiasi confronto solo con le sue risorse naturali, mai dome ed originali.