There is a kind of symbolism hidden in the music of Bledsoe / Lapin, that it does not reflect a simple emulation of arctic sounds. Although the two musicians do not communicate any introspective message, the idea is to analogize the path of our emotions in external relationships and not so much to cause false images (maybe cinematic) of ships involved to break the ice. The ability to relate is the important element with which to illustrate, through thin musical structures, a defined range of sensations (uncertainty, mystery, but also inner well-being) that can be perceived on a snowy or icy mantle.
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Se rapportati ad altri strumentisti, i flautisti della free improvisation rischiano realmente di apparire invisibili: se nell’ambito della musica contemporanea classica la situazione è di tutt’altra sostanza, con compositori che si sono dedicati specificatamente al flauto (Sciarrino ne ha addirittura esaltato le virtù fornendo un vero e proprio catalogo), nella libera improvvisazione i flautisti hanno percorso strade alternative a quelle del jazz, anche in forma free: la radicalizzazione supportata da un ricorso a stati emotivi differenti, è partita allorché flautisti come Robert Dick o James Newton, raccogliendo le sfide non ancora completamente sviluppate dell’eccellenza jazz flautistica in materia di Eric Dolphy, hanno sviscerato nuove timbriche, allettati dalle conquiste fatte in terra contemporanea riguardo alle tecniche estensive esuli delle modalità ritmiche.
Al momento sono pochi gli episodi di flautisti che hanno accettato il fascino dell’improvvisazione sganciandosi dalle imperscrutabili mura della composizione: Helen Bledsoe, flautista di origini americane che da tempo vive a Colonia, rappresenta uno degli sparuti casi in cui far andar di moda l’eclettismo: suona contemporaneo, raccoglie dati storici sullo strumento (perfomances, registrazioni, etc.), indice piccole aggregazioni di musica totalmente libera facendo leva su un sentiment adulto dello strumento, che condivide le scoperte della contemporanea.
“Ghost Icebreaker” è un pionieristico duo tra flauto e piano attuato con Alexey Lapin, musicista con cui la Bledsoe ha spesso incrociato le strade per evidenti similitudini di pensiero: si diceva pionieristico poiché effettivamente non mi sembra ci siano registrazioni di free improvisation (quindi facendo attenzione ad escludere anche il sottoinsieme free jazz) mai effettuate tra un flauto ed un pianoforte (se qualcuno smentisce queste affermazioni sarei grato se lo segnalasse). Il riferimento ad un simbolismo velatamente indirizzato all’ambientazione glaciale ha una valenza ben diversa da una semplice emulazione di suoni artici, poiché pur non essendoci chiarimenti nelle note interne, l’idea è quella di verificare il percorso della nostra emotività nei rapporti esterni, non tanto quello di provocare false immagini (magari di tipo cinematografico) di navi che intervengono per rompere il ghiaccio. E’ la capacità di relazionarsi che è importante illustrare, attraverso esili strutture che coinvolgono la stessa gamma di sensazioni (incertezza, mistero, ma anche benessere interno) percepita su un mantello nevoso o ghiacciato; costantemente alla ricerca di sinergie, Lapin lavora su grappoli di gocce musicali dal registro alto e all’interno del piano, mentre Bledsoe costruisce dialoghi nascosti da qualche parte nel corpo del flauto. “Ghost Icebreaker” è un’esempio di arte finissima, dove ad un certo punto il climax sembra addirittura incupirsi per rivelare una dimensione enigmatica.