Ma in “Inside” le suggestioni sono multiple: con un buon grado di vicinanza all’estetica di Harold Budd, Bruno esibisce in “Freezing point“, di fianco a rumore bianco, un piano sibillino che esprime un mondo senza tempo, con un violoncello che esce dalle mura dei quartetti di Beethoven (malinconia e pioggia osservata da un vetro interno); “A door open forever” indovina un assetto celestiale tra cello-piano che si frantuma in silenzio meditativo (Satie che incontra i pianisti new age); “The place where dying crows” solleva particelle di dolcezza estatica attraverso un piano leggermente preparato, con il cello che tesse filigrane simili a discreti rumori metallici; “Inside“, la title track, ribadisce l’esperimento di Camille dove però il canto etereo elaborato da Sanfilippo (la sua voce), ha l’obiettivo di unire spiriti occidentali ed orientali.
Cuore, semplicità e diretta emotività, intelligenti soluzioni per quello che può considerarsi il suo miglior lavoro nella modern classical anche in rapporto all’universo di quello che è stato prodotto dal filone in questi ultimi anni.
Suggerimenti per vivere suggestioni: l’Inside di Bruno Sanfilippo
Nell’aspra critica cinematografica espressa da Jonathan Demme nel suo film “Philadelphia“, ad un certo punto si assiste ad una scena tra il protagonista Tom Hawks (Andy) e il suo avvocato difensore Denzel Washington (Joe), che ne rappresenta il suo high point: Andy sta ascoltando “La mamma morta” cantata da Maria Callas, ed il brano diventa il veicolo confessionale per esternare il profondo sentimento di vita celato in Andy e convincere paradossalmente l’altro alla sua difesa.
Qualcosa del genere accade anche in “Camille“, un brano di Inside, ultimo lavoro di Bruno Sanfilippo, un musicista elettronico al quale ho dedicato ampio spazio in queste pagine e che negli ultimi anni sta affrontando un rischioso lavoro di compenetrazione negli anfratti della modern classical; “Camille” è un tributo, totalmente scevro da sentimentalismi, rivolto al compositore francese Camille Saint-Saens, in cui il piano incrocia, in tutto l’arco della composizione, il canto sfumato di Mariel Aguilar che canta un passo dell’opera di Samson and Dalilah. La similitudine, peraltro drammatica, tra gli accenni della Callas e quelli di Saint Saens, sta nell’atto di separare il commento dal ricordo: la penetrazione nel subconscio dell’ascoltatore o dell’osservatore rimane ancorata sullo sfondo, con il canto che si prende il compito di trasportare la memoria; è un modo per ribadire la presenza surreale del compositore francese, costruire echi di parte del suo stile nell’aria, appoggiandosi ad un racconto o ad un piano narrativo.