Per carpire le origini musicali del sassofonista americano Sabir Mateen bisogna risalire alle esperienze fatte nei gruppi di Horace Tapscott e Linda Hill: Mateen fu il sax tenore di Dial D for Barbara di Tapscott (1983, con registrazioni primi ottanta) e Lullaby for Linda di Hill (1981, con qualche parte al clarinetto), due albums dimenticati che si inserivano in quel rinnovamento di matrice californiana ancora in possesso di un free jazz molto immerso nella radice blues, ma con contenuti espressivi che inneggiavano ad una nuova stagione del sentimento e della spiritualità. Mateen, dopo quelle vicende, purtroppo suonò molto ma incise poco e questa sua incolpevole negligenza forse gli è valsa una retrogradazione dalla lista dei migliori sassofonisti free dell’epoca. Inoltre lo stesso intraprese quasi subito una carriera da sessionman in formazioni valide ma che si rivelavano anacronistiche rispetto ai tempi; alla fine dei novanta Mateen si trovava effettivamente con un pugno di mosche in mano, in difetto di riconoscimento del suo approccio.
La dimensione live è stata senza dubbio una delle più congeniali del pluri-strumentista americano, poiché in questa Mateen ha avuto la possibilità (specie quando non assalito dal contesto del gruppo allargato) di esprimere la sua visione musicale che gli è specifica: accanto alla spiritualità del suo jazz, vi sono elementi inequivocabili di libertà improvvisativa che appoggiano sotto mentite spoglie sprazzi di composizione contemporanea; ma la fase più interessante, che faceva sobbalzare anche Amiri Baraka al suo ascolto, erano quei climax formati attraverso la vocalità rocciosa e scura che incastrava un sermone con uno scat alla Fitzgerald, una frase sommessamente politica con una poesia da libero arbitrio. Dal 2000 in poi circa, Mateen ha cercato di recuperare sul terreno delle registrazioni e non c’è dubbio che ve ne siano alcune in cui vi è emersione dalla media delle registrazioni del settore*, ma solo in alcune è rappresentato questo show laterale, un reading abnorme immerso nell’improvvisazione più ardita (questo è successo nei duetti con Carter ad esempio o nel suo solo pluristrumentale Urdla XXX).
“Testing the system” è una lunga registrazione effettuata all’Eticarte Wavehead Studio di Monopoli nel 2013 in cui è ospite del pianista Gianni Lenoci e del batterista Giacomo Mongelli, e riprende appunto quel tipo di esibizione, in cui si può ammirare per esteso la compattezza del suono offerto da Mateen, un legato incredibile che si compie in barba alle geometrie e che sembra disegnare schizzi espressionisti su una tela; ma è un risultato che viene raggiunto anche grazie ad un perfetto impegno di Lenoci e Mongelli, i quali per diversi motivi ne impreziosiscono il risultato; se per Lenoci si può parlare di sparring partner perfetto per una versione scientifica dell’improvvisazione imparentata con le ombre contemporanee, in rapporto a Mongelli, Mateen può dire di aver incrociato una delle più raffinate e leggiadre esperienze percussive di tutta la sua carriera (in netta contrapposizione con batteristi blasonati come Sunny Murray, William Hooker, Hamid Drake. etc. tutti in possesso di una diversa penetrazione caratteriale dello strumento).
Queste condizioni di sensibilità verso una seria rappresentazione dell’improvvisazione jazzistica, permeano anche la musica di Guido Mazzon e del gruppo a cinque One Lip 5 (ex One Lip 4tet).
E’ piuttosto difficile esprimersi in merito al corso della musica di Guido Mazzon, tanto essa è piena di considerazioni non effimere da fare; il suo senso dell’improvvisazione che parte da una vena blues e poi si allarga a tanti elementi può ritrovarsi in percentuali condensate nel nuovo episodio di “Apro il silenzio“, che si compone di contrapposizioni tra tromba, sezione ritmica (Muresu al cb, Giust alla bt.) e chitarre (Cattaneo alla acustica e classica soprattutto e Cortellessa alla baritona e a 7 corde), un modo di proporre nuovi approcci mantenuti sempre nel quadro generale di una visione libera e creativa del jazz che Mazzon propugna con molta coerenza da sempre. I ricordi del passato non possono svanire, anzi, costituiscono un esempio per impostare nuove strutture musicali, come se esse fossero un punto di partenza per l’improvvisazione. Il recupero melodico, che spesso ha caratterizzato molte prove del trombettista italiano qui è relegato alla “Io che….“, la inossidabile canzone di Endrigo che rappresenta uno spunto isolato di semplicità musicale lontana da presunte senilità, un vezzo che è appartenuto al free jazz italiano nel momento di sua iniziazione storica, una caratterizzazione proveniente dalla melodia operistica. Ma a prescindere da “Io che...”, “Apro il silenzio” è l’unione di due campi d’azione: da una parte i quattro brani di Mazzon mostrano il lavoro di riequilibrio in chiave moderna del jazz di Davis, delle marching bands di New Orleans, magari vicine allo stile delle marce funebri, del free jazz ancora addensato nelle anime bop post moderne, di contrasto alla libera espressione degli strumentisti, alla loro completa emancipazione da un andamento di gruppo e all’introduzione di temi e suoni che provengono da settori diversi dal jazz. Ne risulta una vena tra il triste e l’eclettico, ma completamente ascrivibile al quintetto (che aggiunge 4 illustri ospiti nei musicisti Parrini, Lodati, Moonchy e Mandarini), in cui un tema alla Grappelli si mischia con un riff progressive e con chitarre al limite della padronanza rock. (In The song, questo ibrido jazzistico è ben evidenziato anche grazie alle evoluzioni tra l’etereo e il vetriolo della voce della Moonchy); oppure si può provare a dare credito ai tre minuti di esplosioni di tromba (Mazzon e Mandarini) e di sezione ritmica (Muresu e Giust) di Free or four, che manderebbero in visibilio qualsiasi platea di jazz.
Dall’altra parte, nei due ultimi pezzi ascrivibili a Cattaneo e Cortelessa, la musica diventa quasi completa direzionalità dei due chitarristi, che ne offrono aspetti differenziati: riemergono così sintassi del jazz stravolte, in cui è facile scorgere impianti tesi alla simulazione degli argomenti; viene recuperata una sorta di compenetrazione di gruppo che, comunque, ha molte frecce nel suo arco.
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Nota:
*penso al quartetto di Other places other spaces, al duo con Shipp in Sama (in cui si apprezza al clarinetto), o a Prophecies come to pass.