Il nome di Ryley Walker, cantautore di Chicago, è certamente la new thing più corteggiata dalle riviste musicali del momento: in un momento in cui molti (incluso me) cercano di ottenere risposte da certe evoluzioni degli ingredienti di base della musica americana, l’entrata in scena di Walker è qualcosa che non sconvolge minimamente le proiezioni di qualsiasi pensiero di avanguardia. Eppure i suoi due cds (All kinds of you e Primrose Green) raccolgono consensi su un passato che si snoda su quell’asse del cantautorato americano della fine degli anni sessanta e inizio settanta (Neil, Buckley, Hardin, Martyn etc.) che ha saputo miscelare con candore la musica folk con le sincopi jazzistiche, creando un’appendice, poco considerata dalla storia, delle jam strumentali che con molta naturalezza si sono attribuite solo al jazz e al blues.
Le vicende di Walker, oltre a ben presentare un meraviglioso rivisitatore del passato, impediscono una netta omogenizzazione del musicista verso i modelli sopracitati e quantomeno suggeriscono quella volontà di estendere le durate come espediente per creare rappresentazioni artistiche in possesso di quella melodicità e godibilità che fu uno dei punti di forza del folk d’autore, aldilà del loro carico di astrazione sentimentale. Nella musica di Walker non troverete la maturità vocale e il timbro inconfondibile di un Buckley o di un Martyn, ma il magnetismo di una chitarra acustica o il conforto di un violino tradizionale o di una formazione jazz-style di contorno lo troverete sicuro; è ancora una musica qualunquista, ma chi ha orecchie buone carpisce come lo stesso potrebbe diventare un nuovo punto di riferimento per un rinnovabile e funzionale revival della folk music che trovò terreno fertile oltre quaranta anni fa: se inquadrate Ryley nei suoi discorsi, nelle sue movenze, si arguisce come lo stesso si impadronisca senza nessun timore di quella profonda consapevolezza dei musicisti che hanno fatto funzionare la sua formazione ed ispirazione, ma propone anche una sua idea di folk music, totalitaria e più polistilistica di quanto si pensi: prendete per esempio il condensato che si ritrova in “Primrose Green“, che beneficia di alcuni musicisti jazz di Chicago con cui Ryley ha suonato e che hanno trovato menzione anche in queste pagine (Fred Lomberg-Holm, Jason Adasiewicz, Frank Rosaly, Whitney Johnson, etc.): non c’è solo la splendida apertura alla Buckley della title track (un brano degno di far parte del gotha dei singoli folk-rock di tutti i tempi), ma anche soluzioni impreviste come le traverse proibite di Same Minds che incrociano l’artista statunitense con il Martyn-style sino al midollo; ma poi pian piano il range d’azione si allarga e e ti buschi la parte old american style dell’artista con il fingerpicking di Griffith Bucks blues o con la Love can be cruel che reinventa un motivo che poteva appartenere agli Allman Brothers in una veste folk jam, poi una On the banks of the old Kishwaukee distribuisce un saggio di bravura che richiama alla memoria certe operazioni della Marshall Tucker Band. The high road, è una versione roots di Drake, mentre All kinds of you attacca il jazz alla maniera di un californiano (Crosby è dietro l’angolo), così come Hide in the roses sembra un refuso di qualche album del Richard Thompson acustico.
Primrose Green scatena ricordi: una volta lavori di questo genere si consumavano magicamente tra le pareti di una stanza ed in simbiosi soddisfacevano le aspettative di tutti coloro che vivevano quei magnifici impasti provenienti da un territorio che allora sembrava tutto da esplorare. Che non lo sia ancora?