Aggregazioni cosmopolite del canto: i Roomful of teeth

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Esiste in giro per il mondo tanta bella composizione per coro, che purtroppo è esiguamente documentata e supportata: la coralità moderna, come già espresso in passato su queste pagine, sta cercando di trovare soluzioni nuove e soprattutto condivise; negli ultimi vent’anni circa, sotto la spinta di diverse grandi opere di alcuni compositori particolarmente avventati nella materia, la propensione dei cori è quella che tende ad inglobare elementi “popolari” anche in strutture dichiaratamente canoniche del canto. Mentre è rilevante la produzione in popular style che viene composta nelle sedi religiose, più contenuta è quella accademica, che trova diramazioni post-moderne in grado di risucchiare elementi diversi del canto senza tener conto né del fattore temporale né di quello geografico. E’ nell’ambito di un eccellente eclettismo che si inserisce la storia canora del Roomful of Teeth, un gruppo di 8 cantanti formatosi nel 2009 a mò di team manageriale e già in cima alle preferenze di molta critica specializzata: replicando quanto già fornito all’esordio discografico, il nuovissimo “Render” fa ossequi all’ampia specializzazione dei suoi membri (1). E’ un campo di azione quello che si è intravisto e che si cerca di ampliare con una lente di ingrandimento grazie anche all’aiuto di giovani compositori particolarmente sintonizzati con le prospettive del gruppo (Brad Wells, Wally Gunn, Caleb Burhans, Missy Mazzoli, etc.); la cosa che colpisce è il tipo di frullato che deriva dalla carburazione degli elementi, poiché si percepiscono (uno di fianco all’altro) brandelli del passato della vocalità, non solo di estrazione classica. Esempi sono “Vesper Sparrow“, in cui varie tipologie di canto vengono accostate, creando un magnifico contrasto (armonizzazioni composte da pezzi scomposti di operistica, phasing canori da surf music che richiamano i Beach Boys dei bei tempi di “Pet sounds“, accelerazioni in vocalese che sembrano allungare le ombre dei mitici Manhattan Transfer in terreni quasi minati per il jazz); oppure i quattro minuti intensi e straordinari di Otherwise, in cui una paradisiaca armonizzazione si scontra con un baritono sofferente provocando inaspettatamente gioia; la stessa title track restituisce una grazia ed un candore che miscela mirabilmente l’antico monodico con parte dalle scoperte madrigalistiche fino ad arrivare ai tumulti di certa coralità est-europea.
Senza avventurarsi nelle derive dell’avanguardia canora, i Roomful of Teeth ne estraggono le forme sapienti per proporne una che possa essere congeniale all’emotività dei contenuti: con loro non si respira aria di chiesa (almeno nel senso con cui ci si è abituati nella musica classica), ma si tende solo alla restaurazione del concetto della godibilità della musica fornita dallo strumento più antico al mondo, un modo per essere dominati dalla bellezza dell’impasto delle voci; ciò che viene suscitato però è un incredibile ed adeguato trait de union tra linguaggi e culture diverse del globo. Qui ci sono otto cantanti che valgono almeno il doppio per ciascuno.
Note:
(1) recita la scheda di Wikipedia inglese in merito ai loro studi:
“……they’ve studied Tuvan throat singing, yodeling, belting, Inuit throat singing, Korean P’ansori, Georgian singing, Sardinian cantu a tenore, Hindustani music and Persian classical singing with some of the world’s top performers and teachers of the styles….”
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.