In un momento in cui i leaders della modern classical sembrano intraprendere percorsi differenziati di cui forse se ne conosce il gusto e il risultato, un personaggio come l’americano di Seattle, Rafael Anton Irisarri, rappresenta un ibrido musicale che sembra non appartenere a nessuno: vicino alla tipizzazione classica del Satie francese, al sinfonismo con significato a latere di Mahler, agli scultori di suono, ai minimalisti di sostanza come Guthrie o Budd, Irisarri ha imboccato una via traversa dell’ambient music che digerisce il fanatismo verso l’esistenzialismo di Camus di cui si nutre anche il recentissimo digital work pubblicato per la Room40 di Lawrence English, allo stato attuale, il suo capolavoro personale.
“A fragile geography” pesca nel grigiore subliminale della nostra società, ricca di imperfezioni e congiure, di assurde configurazioni di potere, succube di una triste accettazione da civiltà incompleta, difettosa. Seppur dedicato agli ambienti e alle faccende statunitensi, A fragile geography accomuna i problemi degli occidentali in un fascio di droni che si caratterizza per la loro espressività poiché al servizio del tema: una bruciante oscurità esistenziale domina la bellissima “Reprisal“, il senso di impotenza e quasi di misericordia influenza “Empire Systems“, il dramma e la voglia di liberazione si insinua in “Persistence”. Concentrandosi sulla capacità emotiva del suono dronistico e su un ruvido trascinamento di esso, Irisarri fa dimenticare i pulviscoli di sperimentazione che spesso si incontrano in questo settore della musica, poiché punta dritto allo scopo senza vie estreme di collegamento. In “Secretly wishing for rain“, in mezzo ad un roboante e deturpato clima sonoro, ci sembra scorgere qualcuno che sta pizzicando un violoncello (Julia Kent) intriso nella rassegnazione. Non ci sono evoluzioni tecniche particolarmente attraenti da carpire in “A fragile geography“, né addensamenti nostalgici di sorta, ma solo un insistente concentrato di un sentimento affranto di constatazione della realtà, che nella storia musicale ha avuto modo di evidenziarsi in varie possibilità: oggi si esprime con le impostazioni a forma di loops e di droni rumorosi di computers equipaggiati. Siamo ovunque proiettati nelle semplificazioni di pensiero dei films di Herzog in cui è palese la ricerca di una verità dei fatti attraverso le immagini, una sorta di nuovo realismo comandato dalla funzione visiva; tuttavia non mi sembra che ci siano le condizioni per superare l’empasse inflattiva che da qualche anno circola nel settore, né tantomeno attribuire qualità trascendentali all’operato di Irisarri: è molto più saggio interpretarlo come un’operazione che tende a smascherare il pensiero del suo autore, del suo intimo, con risultati che sono potenzialmente migliorabili così come espresso da Anthony D’amico sul web magazine Brainwashed; d’altronde se pensiamo alla carriera di molti musicisti strutturati allo stesso modo di Irisarri notiamo delle similitudini nel modo con cui sono stati coniugati gli obiettivi di certificare uno stadio di intersezione tra gli elementi di lavoro a disposizione e il subdolo raggiungimento di un’epica crittografia della coscienza: se ad esempio prendiamo in esame il lavoro di Lawrence English, non possiamo fare a meno di concludere che dopo la maturità raggiunta con Kiri no Oto, non sia stato più in grado di ripetersi a quei livelli usando il drone*.
* si prescinde naturalmente dalla pura attività discografica riversata nei field recordings e negli esperimenti di laboratorio che inficiavano le ottime prove di Studies for Stradbroke e For/Not for John Cage.