Un flauto italiano senza confini: la parabola artistica di Massimo De Mattia + Meats

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San Vito al Tagliamento, 01/03/2013 - San Vito Jazz 2013 - Foto Luca d'Agostino/Phocus Agency © 2013

Nella rinnovata scena improvvisativa italiana sorta agli inizi dei novanta pochi musicisti possono vantarsi di aver contribuito a lanciare sassi più avanti nella ricerca: Gebbia, Mimmo, Lenoci e pochi altri. In tutti questi casi quello che vi trovate davanti non è solo un eccellente musicista ma anche un potente esegeta della materia jazz e dell’improvvisazione libera. E’ una capacità che spesso costituisce il carattere distintivo di un artista e della sua carriera: sicuramente tra questi va inserito anche il flautista di Pordenone, Massimo De Mattia (classe 1959), un dotato musicista, preparato per qualsiasi tipo di sfida artistica; De Mattia può vantare già un nutrito pedigree artistico che merita di essere analizzato perché proietta ascolti comparati, intersezioni culturali, visuali del mondo che si concentrano in patterns di note affiliate. Nato specificatamente come flautista e in grado di effettuare qualsiasi evoluzione sullo strumento (comprendendo anche il flauto basso e il piccolo), De Mattia riconcilia al flauto, senza concorrenti in Italia e forse senza in Europa, la scrittura contemporanea con l’improvvisazione dello stesso tipo, non solo attraverso l’utilizzo delle tecniche relative ma anche tramite uno spirito performativo che non aderisce quasi mai ai canoni stabiliti dal jazz tout court; stilisticamente è un ibrido che, pur accentando le velleità dei padri putativi del flauto, non è in grado di rifarsi singolarmente a nessuno di loro: c’è Eric Dolphy, Sam Most, anche e soprattutto le espansioni innovative di Robert Dick, ma anche una formazione da musicista classico che bazzica le opere scritte dai compositori per i flautisti contemporanei, così come non dimentica gli stimoli che provengono da tanti focolari alternativi (musica rock, elettronica, etc.). Di fatto, dopo aver avvicinato i territori jazzistici, suonando con Tom Kirk (hard e post bop) e con alcuni congeniali partners (il pianista Glauco Venier, il chitarrista Lanfranco Malaguti e Bruno Ceselli), De Mattia rimuginò ad una sua forma personale di musica diversa dai quei clichés, che non poteva prescindere per la sua realizzazione dall’apporto di un paio di fondamentali compagni di avventura.

L’esordio di Poésie pour Pasolini nel 1993, non è solo un omaggio al grande regista e scrittore italiano ma ad una certa letteratura moderna delle arti, che si rispecchia in un profondo senso dell’introspezione a cui De Mattia attribuisce valore in funzione delle possibilità trasformative del flauto: come nei migliori pensieri del jazz si ricostruiscono le essenze di scrittori, registi e poeti con un’organizzazione al flauto che, grazie anche agli interventi di Venier, vola alto sulla bellezza intrinseca del messaggio artistico che gli autori prescelti forniscono. Negli anni in cui l’improvvisazione libera a livello mondiale comincia a riprendersi dopo una sua brusca diminuizione in quasi un decennio, De Mattia riporta anche in Italia l’importanza di un certo tipo di improvvisazione e il senso dei suoi legami con discipline diverse; il cd, che inagura il periodo Splasc(H), condivide un idioma più ampio che è tributo ad una specifica parte dedicata alla “percezione di verità differenti”, una serie di brevi schizzi esistenziali che grazie al dialogo con il contrabbassista Giovanni Maier, aprono ad una prospettiva personale, dove la brevità è un pretesto elaborare contrasti che individuano la parte più acrobatica di Massimo.
L’esperimento da colto caffé letterario viene ripetuto in The silent drama, con i testi di Baudelaire che accompagnano un lavoro teso stavolta all’isolamento e all’incomprensione: anche qui in una forma mista tra jazz e libera espressione (sempre con Venier e Maier) il flautista è ancora più attento nel fornire un valido approccio alla tendenza complessiva, con brani che stanno con un piede nel jazz ed uno nella musica contemporanea, tant’è che il successivo Metonymic lo vede oscillare tra Dolphy e Scelsi. Tuttavia Metonymic si introduce anche in quei meandri di possibilità offerte dalle distorsioni di un chitarrista rock, in un concetto più ampio di improvvisazione che filtra al suo interno un interesse per uno sperimentalismo misurato con il tecnicismo e l’abilità perfomativa (una notevole versione di Voodoo Chile di Hendrix che mette assieme l’extraordinaire empasse di Gazzelloni, il  pensiero di Dick e il furore verbale di un flautista progressivo); inoltre compare l’elettronica distraente di Mauro Teho Teardo in Room, e un duetto con Pacorig, La parte (O)scura, è impostato per creare nuove, raffinate risposte creative che si presentano come cortocircuiti espressivi, come nella migliore contemporaneità classica. Questa composizione sarà anche la base di approfondimento di un successivo ed omonimo album registrato dal vivo nella chiesa di S.Lorenzo a S.Vito al Tagliamento. L’esperienza discografica con la Splasc(H) termina con Schiele, un’accurata “opera” improvvisativa totalmente calata nel jazz, nella free improvisation e nelle forme di conduction alla Morris, che ambiziosamente si propone di fornire un prodotto che di regola si trova in seno a commensali del teatro, con un’enfasi drammatica (come nelle opere teatrali) e schizoide (come nelle musiche di Zorn). Questo periodo è fondamentale per la conoscenza di De Mattia, poiché in esso si trova una formula onnicomprensiva, in cui c’è tutto per soddisfare i palati fini dell’ascolto.
Nel 2003 De Mattia comincia ad incidere con la Setola di Maiale registrando Viaggio al termine delle note, tre brani in trio con Maier e Luca Grizzo, ma è il suo primo Duel con il chitarrista acustico Denis Biason nel 2008 che riprende il punto lasciato da Metonymic; in uno dei migliori dialoghi tra chitarra e flauto di sempre nella scena improvvisativa italiana, Duel è destrutturazione di toni e tecniche portata ai massimi livelli ma non è niente che si possa considerare arido o insopportabile poiché è la volontà di riprodurre un linguaggio che elabora tutti gli umori di una giornata: pensiero, preoccupazione, frenesia sono alcune delle irreprensibili conquiste di due musicisti sopra le righe, così come verrà confermato anche da un secondo incontro (Duel 2), qualche anno più tardi. Tuttavia restano nella considerazione della critica inspiegabilmente molto trascurati.
Il primo solo di De Mattia al flauto arriva nel 2009 seguendo ancora la linea della celebrazione autonoma: Stratos incarna i due volti del nostro famoso cantante, da una parte si incentra sulle evoluzioni degli armonici del flauto in un tentativo di comparazione (è ciò che succede in Kallistos dove si fa assistere da Biason in una sorta di sovrapposizione a mò di diapason elettrico) dall’altra lavora sul carattere aggressivo e affamato di novità del cantante italiano; le cinque parti dell’omonima suite fluiscono il sortilegio di vedere affiancati Gazzelloni e il Demetrio rocker, ma la perizia delle tecniche presentate, i trilli e il fronte aperto da soluzioni funamboliche sono tutti elementi che convincerebbero persino un compositore contemporaneo. Stratos fornisce parecchi spunti, venuti di gettito, e l’idea finale è che a prescindere dalla bravura impressa dal flautista friuliano, si possa costruire un treno di articolazioni, raccogliendo con più ordine e meno enfasi i temi presentati: i tre minuti di Stratos remix (con elettronica ritmica di Olivotto) aprono, nella pur breve sintesi, nuovi orizzonti.
Una bellissima e temeraria ricerca dello spirituale pervade i cinque episodi improvvisativi di Atto di Dolore, un quartetto con Biason, Ceselli e Kaucic del 2010: nato in un clima più meditativo, il lavoro di De Mattia qui acquisisce una configurazione più vicina alle maratone spiritiche che attribuivano un ulteriore ruolo al flauto, sacrificando l’esplosione per agevolare la trance (vedi le prime evoluzioni degli Art Ensemble of Chicago). Lo stesso quartetto con l’aggiunta estemporanea di una voce (Grizzo), di una fisarmonica (Todesco) e di un contrabbasso (Turchet) si evolve inaspettatamente in Mikiri+3, che aggancia in misura sostanziosa melodia e presunta godibilità. Come democrazia musicale non è niente male, ma è un passo indietro nella ricerca di De Mattia che si impegna a procurare versioni immacolate e morbide dell’Ave Maria di Caccini o di Pannonica di Monk, risultando nettamente più affascinante in El triunfo de la muerte (un’improvvisazione probabilmente derivata dal celebro dipinto di Brueghel) o nella cover di Who knows di Hendrix.
Sta di fatto che da questo momento in poi inizia una fervida attività discografica in cui le registrazioni vengono effettuate presso etichette differenti: è un passaggio che rivela nuovi aspetti per De Mattia, sebbene talvolta ne costituiscano un’insidia. Quali?

Massimo si unisce spesso al contrabbassista Giovanni Maier quand’anche lo fa in trio assieme a Kaukic: è il tentativo più deflagrante di acciuffare lo spettro dell’artigiano dell’improvvisazione che esplora la materia grezza del suo strumento per dar vita ad emissioni libere e di spirito: pubblicati per la Palomar sia The jazz hram suite che Double Layer sono dei bei lavori, in cui emergono le capacità dei partecipanti di saper coltivare suoni speciali e quasi ancestrali. Tuttavia è un quintetto con Biason, Cesselli, Turchet e Vitale immortolato in Black Novel che diventa l’opera più riuscita del reparto “formazioni”: nell’ambito di quel contemporary jazz che specifica molta improvvisazione del duemila e di cui De Mattia può considerarsi un alfiere europeo, Black Novel disegna la combinazione magica; sin dalle prime note si arguisce come sia fortissima l’indagine del flautista come quasi in un disco solo, dove il compito degli altri è quello di reggere le geometrie e di procurare altre splendide prospettive di investigazione; è un punto di mediazione tra il jazz così come conosciuto e i territori disadattati dell’improvvisazione libera che sprigiona una maturità incredibile (in Seppuku-Mishima, dedicata al macabro rituale suicida dello scrittore e drammaturgo giapponese, De Mattia viaggia a velocità impressionanti). Sulla falsariga di Black Novel viene impostato anche Hypermodern in quartetto sempre con Vitali ma con Maier e Mansutti, un’accelerazione nel tenore generale della sua musica che sembra appena sfornata dal periodo free jazz dei fantomatici anni sessanta, ma che presenta anche una complessa chiave di  interpretazione dei suoni.

Due importanti variazioni colgono l’esperienza live al Teatro Arrigoni di S.Vito: la prima è un fascinoso ritorno alla matrice jazzistica, la seconda è il numero del collettivo (9 compreso De Mattia) che predomina l’ambientazione senza sbavature ma anche senza particolari stadi innovativi. Anche il successivo Trilemma, registrato alla Caligola R., è lavoro di mediazione jazz; in un trio impostato nello stile di quelli di Evans, con la variante del flauto al posto della batteria, il lavoro fa scorpacciate di atmosfere ed è inalberato di modalità ma tuttavia scontenta un pò la mancanza di una concreta sostanza free, che alla fine rende plastica la sostanza del lavoro.
Il rinnovo di una progettualità che sembra mancare in alcune delle ultime prove si fa viva nel 2014 e 2015, due anni penso molto significativi per De Mattia. Innanzitutto registra Skin, un doppio cd che riporta Massimo ai massimi livelli nei territori d’incrocio della composizione istantanea: coadiuvato da molti dei suoi stretti collaboratori musicali, Skin è una sorta di summa delle sue attività includendo il lato in solo: si tratta di 8 proiezioni perseguite per mostrare aspetti differenziati di come proporre il flauto in un contesto moderno: dalla creatività triangolata con Turchet (cb) e Grizzo (vc) di The erotic variations, al quartetto da frammento free con Cesselli, Maier e Kaucic di Epigrams, dalla forte influenza classica delle Cinque solitudini (in veste solista) ad alcuni prototipi di duetto tra flauto e altri strumenti; si va con il clarinetto di D’Agaro nella vena sommessa di una registrazione classica e quasi dadaista in Lunar Elegies,  con le percussioni di Ghirardini  nella caccia di ricerca di suoni spiritual time in The ceiling in the sky, con la chitarra di Biason nella consuetudine e prolungamento dell’esperimento di Duel2; completano il quadro il trio interagente e vibrazionale con Caruso (sax soprano) e Vitale (vibraf.) di Anémic musique e quello compresso in un caleidoscopio di Lysergic flowers con Pacorig (fender rhodes) e Cisilino (tromba). Skin è un trattato sul flauto jazz, un disco importantissimo che può stare tranquillamente vicino ai poemi di Pasolini, al Metonymic e al Black Novel.
Un’altra buona novella degli ultimi tempi è il ripristino delle prove in solitudine (o quasi): dopo cinque anni ci ritroviamo con un inatteso Pulp, registrato nella neonata etichetta HoaxHobo R. condotta da Luciano Caruso e War Flute machine, in cui si avvale della collaborazione al live electronics dello stesso sassofonista; mentre Pulp ricerca un tono emotivo forte e spazia a piede libero tra overblowings, salti di registro, glissandi o arpeggi in una totale assenza di struttura sottostante, War Flutes si sistema tra risposte assistite, misteriose combinazioni di suoni che mettono insieme Niblock e Bevis Frond o enigmatici raccordi di pensiero che evocano le manovre preludiche di Strawberry Fields Forever (in quel pezzo il flauto era un sintetico ma determinante mellotron): si sentono alcune grandi cose dentro le due raccolte, come gli oltre 6 minuti di Soft distortion (uno di quegli ipotetici viaggi traslativi della musica), l’imbarazzante forza simulativa di Eroticism (particolarmente spinto nell’estensività delle tecniche), l’azzeccata Sediments in cui il ruolo di Massimo è di seguire armonicamente l’onda d’urto dello sciame elettronico o l’incredibile turnaround seriale di War Flute machine.

Meats paga tributo ad un concetto materico che rimanda alla densità e al parossismo: se impostiamo l’ascolto verso il suo naturale luogo di destinazione, ossia quello della sensazione subliminale latente, risulta fin dalle prime battute che De Mattia per raggiungere l’obiettivo non aveva altro che lavorare sodo sulla fisicità esprimibile sullo strumento; lo sforzo, la difficoltà, l’immane tensione comunicativa poteva essere ricostituita con un’opera brillante, virtuosa e dinamicamente hi-fi; strutturato quasi in sketch di breve durata, Meats non porta titoli, solo tracce di libera interpretazione, che rilevano come questo sia il suo vero consuntivo espressivo: c’è una buona prevalenza di arpeggi, le sovrainsufflazioni talvolta ci ricordano Most e il più progressivo Anderson, ma se l’ascoltate con attenzione Meats è un vulcano in eruzione, un prodotto De Mattia-style al 100%, calato in una spontanea costruzione del “momento” musicale che fa pensare ad un equilibrio stabile tra acrobazia e ricerca di un messaggio. In Meats c’è tutto quello che serve per definire una grandezza: tenuto conto delle qualità sonore del flauto, vi potete trovare plurime segnalazioni, quelle più o meno sconnesse di un passante di nazionalità non definita, il candore esplosivo di una Bourée barocca, la psicosi di un artigiano intento a produrre il suo capolavoro; c’è un filo comune nelle tracce di Meats che, pur cibandosi della modernità musicale, ha un incredibile irreprensibilità melodica. Potrei indicarvi tra le più impressionanti la traccia 7, che è un pezzo assoluto di bravura, ma realmente farei fatica a trovare differenze in un lavoro che nasce per l’insieme.

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.