Proporre una graduatoria degli elementi di interscambio tra la composizione e l’improvvisazione sarebbe forse più opportuna di una sterile combutta su chi ha dato di più alla musica degli ultimi cinquant’anni. Esiste tutto un mondo di musicisti e compositori, che incrocia le due tendenze del far musica, che ha da tempo dimostrato di come sia possibile pure trapiantare le essenze di ciascuna nell’altra; questo processo è anche passato per le fila dei movimenti post-moderni, sembra che stia trovando terreno fertile nell’ambito di quelle evoluzioni che il minimalismo statunitense ha creato nelle generazioni successive a quelle di Riley, Glass e Reich, pensando senza tanti fronzoli di sostare tra la seconda e la terza generazione.
Vi propongo due splendide compositrici che stanno percorrendo un percorso a ritroso nel mondo della composizione, che cercano di attribuire coscienza e personalità ai suoni, lavorando intelligentemente sull’acustica degli strumenti o sulla loro combinazione con elettronica elaborata live, nettamente devota al solo risultato senza nessuna catarsi intellettuale: in pratica un modello alternativo artigianale che buona parte del mondo compositivo ha incredibilmente (e da tempo) messo da parte.
Nell’intraprendenza di una formazione divisa tra Tenney, Rzewski e Andriessen, la canadese Allison Cameron (1963) ha avuto modo di mettersi in luce con una propria composizione nella vicinanza solidale alle convenzioni del post-minimalismo del gruppo dei Bang on a Can: inspiegabilmente trascurata nell’interesse altrimenti accordato ai noti dell’aggregazione, la Cameron si impose con un paio di eccellenti composizioni che trovarono posto solo qualche anno più tardi (e direi fortunatamente) su Raw Sangudo, un cd pubblicato nel ’95 dalla XI Records: l’esilarante forma di chamber music proposta in A blank sheet of metal (Tungsten Carbide) e The chamber of statues nell’87, donava volto ad una personale rielaborazione della disciplina minimalista, basata su una strumentazione eterogenea (mettendo assieme tuba e sintetizzatori, chitarre elettriche ed organi, clarinetti bassi e melodiche), tocchi avant-rock e una gamma estesa di sensazioni da percorrere, dal candido al misterioso.
La Cameron ha continuato a viaggiare su questi livelli per tutti i novanta, aggiungendo altri episodi di valore, anche riducendo gli organici come nel grattare di Somatic Refrain per solo clarinetto basso del ’96 e nella struttura apparentemente simmetrica di Ornaments nel ’99 per violino e piano, due meraviglie che sono contenute in un cd per la Spool R. pubblicato nel 2002; l’evidente vicinanza dell’equipaggiamento della sua idea compositiva al mondo della sperimentazione acustica ed elettroacustica pose anche le basi per un approfondimento nel campo dell’improvvisazione, modalità che la Cameron ha affrontato con parecchie sovrapposizioni di pensiero, attraverso installazioni o partecipazioni a festival sperimentali in cui la stessa si cimenta con strumenti ecletticamente prescelti (banjo, kalimba ed un particolare synth della Korg) alla scopo di rimodulare dei temi folk tradizionali e soprattutto di ottenere quello che la compositrice chiama la densità dello sviluppo improvvisativo.
Il 2015 l’ha vista ritornare discograficamente con un ensemble classico, i Contact, in cui si rivela una nuova tendenza: A gossamer bit lascia proverbialmente andare la musica in stadio armonico, basandosi su una riscoperta dell’emotività dei suoni che può derivare da un semplice approccio organizzativo di essi, siano essi accordi che formazioni: 4 composizioni che inneggiano allo stesso principio ma che possono anche indicare un tradimento, data la maggiore classicità di fondo.
Paula Matthusen viaggia su sinopsi compositive che pagano tributo ad un concetto di riappropriazione dell’emotività dei suoni in un contesto moderno: in un momento in cui siamo tutti sbilanciati verso scenari futuristici della musica impiantati sull’utilizzo spasmodico dell’elettronica, la compositrice americana è un raggio di onestà e semplicità compositiva dove la rivincita delle potenzialità acustiche e digitali dei suoni ha il dovere di portarci indietro a fare un pò di conti, come in una sorta di macchina del tempo debitamente controllata dalla modernità attuale. In debito formativo anche con il minimalismo coreografico e con la disciplina dello “smussare” le angolature (in cui è impossibile non rifarsi alle possibilità strutturali delle composizioni per nastro di Lucier), Matthusen ha vinto il Roma Prize nel 2014 nel corso del suo soggiorno e, grazie alla Innova R., ha recentemente registrato la sua prima raccolta monografica, incentrata sull’essenza della sua attività compositiva: anche qui la scelta degli strumenti è conditio sine qua non per il raggiungimento dell’obiettivo musicale, dal momento che la Matthusen fa largo uso di possibilità esplorative che normalmente provengono dal campo elettroacustico, settore in cui gli improvvisatori sono diventati i principali e di fatto gli unici utenti attenti del settore: di fianco ai normali strumenti da camera della classica si tratta di recorder, banjo ed aggeggi elettronici, presentati nella loro rudimentalità sonora ma con l’intenzione di essere benedetti nella memoria storica odierna, attraverso l’utilizzo di tecniche simbiotiche di live-electronics. In “Pieces for people” le formazioni “minimaliste” fanno fatica ad adattarsi ad una strada maestra poiché la funzionalità della composizione sta nell’intento di creare interesse e calore attraverso i suoni: Sparrows in supermarkets (recorder ed elettronica multicanale) dona molta speranza all’emotività diretta della musica così come Limerence (banjo ed elettronica) restituisce quell’aggiornamento roots che gli americani della tradizione temono devastante; in questa monografia trovate in Of architecture and accumulation anche il lato sperimentale di Paula, un versante molto interessante della sua musica che la porta nei territori della risonanza della Oliveros (Matthusen ha compiuto qualcosa di simile alla Oliveros introducendosi nelle viscere dell’acquedotto newyorchese di Croton), mentre il costruttivismo sonoro-vocale, che sta legando vaste zone della composizione mondiale (l’algida rappresentazione naturalistica di John Luther Adams, l’accecante rassegnazione di Kourliandski e di molti russi, le composizioni più recenti di David Lang e Julia Wolfe), emerge in forme quasi mantriche nella The days are nouns, E’ indubbio che dalle parti di Paula circolano ancora rosee prospettive tutte da approfondire.