Di Anders Hillborg vi ho già decantato le qualità artistiche in un mio precedente articolo, ma non posso sottacere sulla bellezza che raggiunge la sua musica in questo nuovo cd di sue composizioni recenti per la Bis R. in parte presentate ai Proms dello scorso anno: trattasi di 4 composizioni affidate alla Royal Stockholm Philharmonic Orchestra, condotta da alcuni dei più gettonati direttori del momento contemporaneo: Sakari Oramo, David Zinman e Esa-Pekka Salonen. Il percorso compositivo di Hillborg segue un condotto diverso da quello che la musica (che noi definiamo contemporanea) può suscitare nella complessa area dei ricordi e delle citazioni; se mi passate un’espressione infelice, quella di Hillborg può essere vista come un’innovazione di processo in cui è evidente che lo scopo è proprio evitare una pessima e sterile ricomparsa di fattori, che, per essere neutralizzati, hanno bisogno di non affogare in una benché minima traslazione del passato che non sia adeguatamente supportata da un’idea di ricomposizione; uno dei modi per rivitalizzare la musica moderna è stato quello di legare la storia in montaggi differenti, adempiendo ad una scelta logica sugli elementi che la compongono e che oggi vanno dalle transizioni musicali alle spezzettature o ai campi di forza; Hillborg ha una dannata propensione a farci scorrere nelle bellezze di un tempio con un’incredibile semplicità. Nell’orchestrazione recuperata al suo splendore armonico, c’è una dimostrazione di quello a cui dà credito Hillborg: la forza strumentale e l’avvolgimento delle situazioni sonore. Nella sua formula è riuscito a trovare un punto di equilibrio tra Stravinsky, Sibelius, Gorecki e Xenakis, pianificando le loro tecniche per trovare un punto di equilibrio tra relazioni differenti.
In Beast Sampler al 6 minuto circa, grazie ad uno splendido lavoro di partitura sugli archi, i glissandi avvicinano il sonoro di quelle fontanelle dei fuochi d’artificio create sull’acqua, salvo poi diradarsi in addensamenti orchestrali che diventano protagonisti di un umore diviso tra il magnetico e il pastorale: un lavoro in cui evidenti sono le trasposizioni effettuate sugli strumenti di studi di simulazione provenienti dall’elettronica.
I quasi cinque minuti di O dessa Ogon, una composizione per soprano e parte orchestrale di archi, è un pozzo di eccellenze: il testo, ripreso da una poesia di Gunnar Ekelof, possiede una forza d’urto interiore e simbolica sconcertante (lo riporto nelle note in una traduzione inglese); la perfezione della vocalità espressa della soprano Hanna Holgersson è circostanza da mettere i brividi, in una partitura in cui Hillborg dimostra di poter trattare la voce come un boomerang di emozioni, al passo delle traiettorie poetiche. Per le sue dinamiche O dessa Ogon potrebbe competere con alcune intensità immortali del canto classico, come nelle penetrazioni sentimentali della Mamma Morta della Callas o la Sorrowful songs della terza sinfonia di Gorecki; l’orchestra di archi, poi, segue un penetrante ed efficace modulo che si infila nelle decadenze di Shostakovich.
Per Cold Heat emerge un tremendo contrasto coloristico tra le tre parti fondamentali dell’orchestra: archi, percussioni contro un’efficace sonorizzazione di corni e tromboni; incastonata tra glissandi, espansioni melodiche e aree di attesa divise tra romanticismo ed entità delicatamente seriali, vi sbatte tra Wagner e Xenakis, Debussy e Ralph Vaughan Williams, con un andamento perennemente a caccia di sorprese strumentali.
Glissandi eterei, percussioni simili a cristalli e due soprani con coro raccolgono l’ispirazione del tema delle sirene di Ulisse: Sirens rivive ancora nelle qualità certosine di Hannah Holgersson e di Ida Falk Winland con il supporto dell’ Eric Ericson Chamber Choir e dello Swedish Radio Choir; ha un fascino nettamente diverso da tutte le rappresentazioni fatte musicalmente per esprimere la mitica vicenda omerica, poiché nella versione di Hillborg l’irresistibile penitenza viene filtrata in un trasognato ed onirico viaggio di 33 minuti in cui si trovano eccellenti impasti orchestrali, mediazioni corali che trasportano in un’altra dimensione e due soprani che raggiungono note impensabili e cariche di emotività.
Quattro pezzi che trascendono qualsiasi concetto di ultra-modernità. Un ascolto imperdibile.
O dessa Ogon (tradotta come Oh these eyes)
Oh these eyes
in the darkness, leaning over me
the darkness of a thousand eyes
and thousand vertiginous gaps
blacker than my eyebrows
than the locks at my temples
Hardly seen as the glow from an invisible lamp
is a sheen over cheek and forehead
It is the face of your loved one
bending immobile over your fate
But why such hard eyes?
I do know that the mirror is there
and someone else in the mirror
At some point you will turn towards it
When you look away, I too will be away.