L’ascesa del musicista belga Giovanni Di Domenico è una circostanza che mi rende enormemente felice, in quanto posso dire di averla favorita anch’io, con le mie convinzioni e i miei scritti su di lui. Come scritto in un precedente articolo, in Di Domenico la poliedricità del mezzo espressivo fornisce il carattere distintivo della sua musica ed in tal senso è un musicista perfetto per Percorsi Musicali, che condivide la stessa variabilità stilistica. Il grado di contentezza aumenta quando penso che il suo nome è arrivato come un treno sulle pagine di The Wire e che l’attività concertistica si è rapidamente espansa in tutto il mondo; last but not least, l’ulteriore e saettante notizia che si rinviene dalla pubblicazione di un LP registrato nella serie Zeit Composers tenuta dalla Die Schachtel, intitolato “Arco“, in cui prende di petto l’attività compositiva, avvalendosi della collaborazione di archi e dell’elettronica di Jim O’Rourke, che negli ultimi tempi è molto vicino a Di Domenico. Prendendo spunto ispirativo dal quel costruttivismo sonoro che sta imperversando in molte parti del mondo e che consiste in droni orchestrali minimali ma carichi di sfumature, “Arco” si appoggia sulla controversa sensazione di benessere di qualcosa che a monte fu teoricamente preparata per giungere invece all’alienazione. Una delle qualità di Di Domenico è quella di incidere sulla forma espressiva, che tende a catturare gli stadi d’attesa dandogli un contenuto sonoro ed Arco riesce alla perfezione in questo tentativo, che può degnamente coronare la sua attuale attività compositiva, che ha un gancio fortissimo rivolto all’asse minimalista della musica, anche di natura elettroacustica (Riley, Radigue, Christer Hennix).
Per ciò che riguarda invece il versante dell’improvvisazione ci sono tre progetti da segnalare:
a) quello dei Delivery Health (un trio con O’Rourke e Tatsuhisa Yamamoto) che potrebbe insinuare una possibile evoluzione di Clinamen o Distare sonanti: brani come Transgression is only fleeting fanno venire alla memoria i pianisti obbliqui dell’Ecm (specie quelli nordici) e la percussività a ricamo di Motian, mentre pezzi come Superfield entrano nella dimensione sonora elettroacustica che è parte del bagaglio di Di Domenico; c’è molto del drone della Radigue, con totale privazione dell’intento religioso e la sostituzione di esso con quello della sovraesposizione, raggiunto attraverso subdole dosi di noise (anche strumentale) ben architettate.
b) i duetti con chitarrista annesso sono alcune collaborazioni che Di Domenico ha effettuato con O’Rourke, Tetuzi Akiyama e Norberto Lobo; Duos with guitars rimonta la considerazione dell’efficacia di mondi espressivi diversi tra improvvisatori che molti sbrigativamente liquidano nel pensiero armonico, ma che dovrebbe essere liquidati a livello emotivo, cioè assecondare una vivida sensazione che la musica può generare, come un qualcosa in più della somma delle parti. Se auralmente l’ascolto concentrato riesce a trasferire determinate situazioni immaginative, allora il musicista/compositore ha raggiunto il suo scopo. La relazione tra le parti in questi duetti funziona benissimo con O’Rourke, mediamente bene con Lobo, non bene con Akyiama.
c) due lavori totalmente elettroacustici che confluiscono nel progetto Hintanoi: i due volumetti di Makes no sound segnalano l’attrattiva di Di Domenico verso la vecchia regia dell’elettronica, ma evitando accuratamente di scadere nella retorica e nel vintage: Valve of the impossible (nel vol. 1) e Wols (nel vol. 2) sono degli ottimi viatici del pensiero del musicista e fanno comprendere come l’intendimento sia quello di fornire plurimi spunti, tracce del passato mimetizzato, che si presentano durante gli sviluppi sonori dei pezzi (Radigue, le tecniche di risonanza, un certo prog-rock oscuro, il noise di derivazione elettronica). Il labile confine tra composizione ed improvvisazione qui acquista un rilievo ancora maggiore perché l’ipnotismo creato, supera l’empasse statica del drone e chiede di rappresentare i nostri tempi.