L’approfondimento della storia recente della musica del Sudafrica lascia certezze ma anche amarezze. Se personaggi come Abdullah Ibrahim o come tutto il gruppo dei jazzisti sudafricani espatriati in Inghilterra hanno vissuto in pienezza e qualità un ciclo che non è rinnovabile, altri come Miriam Makeba hanno incarnato la protesta politica ma si sono posti in quel limbo tra popolare e occidentale che, vivendo sugli arrangiamenti, non ha permesso di raggiungere equivalenti risultati (se ascoltate tutta la discografia della Makeba vi renderete conto di come questo sia stato un deprimente e costante leit-motiv); ma è bene ricordare come il Sudafrica abbia vissuto un periodo di splendore comunicativo non appena Paul Simon si interessò delle sonorità delle tribù ed in particolare dell’etnia dei zulu, i quali per diversità di estetica si differenziavano dalle origini xhosa diluite dalla Makeba nella sua musica: la xhosa people venne nei fatti esacerbata da alcuni colorati musicisti-danzatori che giocavano sull’emotività ritmica dei suoni provenienti da marimbe imprestate dal curato David Dargie, un prete cattolico a cui era stata attribuita la responsabilità di una riorganizzazione della liturgia africana, che si univa alle intricate polifonie vocali comuni anche ai zulu ed altre etnie. Gli Amampondo formati da Dizu Plaatjies si propongono di far conoscere il mondo di una sub-tribù della xhosa people, ossia il mpondo, in cui espressione orale, donne e cerimoniali sono ancora importanti elementi di passaggio transgenerazionale; essi si rendono protagonisti della valorizzazione del patrimonio musicale anche evocando figure importanti come Mandela o galvanizzando la figura di Desmond Tutu in un omaggio-registrazione che prevedeva musica e inserti di discorsi tratti dalle conferenze fatte dal canonico sudafricano. Gli Amampondo collezioneranno con umiltà alcuni lavori musicali e inaugureranno un giro-concerti in cui cercare di divulgare in maniera definitiva il proprio linguaggio, abitudini e sonorità: se Heartbeat of Africa “Uyandibiza” (un Lp dell’83) è la presentazione ufficiale quasi selvaggia di una comunità, già il successivo Pulse of Africa (’89) è musica riordinata e propedeutica ad una stagione dell’espansione di forme lavorate che ha il suo culmine con Vuyani (2000), ultimo lavoro del gruppo con il suo leader Plaatjies.
In una situazione di rapida commistione della musica tradizionale con rap, hip-hop, drum’n’bass e quant’altro, Dizu Plaatjies sposa la causa della funzione etno-musicologica, accettando con molta parsimonia la novità; sfruttando anche la bontà qualitativa delle registrazioni odierne, questo colorato leader sudafricano dà vita ad un’ulteriore vetrina delle sue tradizioni in cui si lotta per capire ciò che innovativo e ciò che può sembrare anacronistico: il rinnovato gruppo di Ibuyambo diventa succursale e laboratorio degli Amampondo in cui verificare sviluppi sulla vocalità dopo aver esaurito quelli sulla parte ritmica, mentre con Mzwandile Qotoyi, suo stabile partner in Amampondo, si cimenta in un paio di innovazioni: in un’opera a tre voluta assieme al percussionista cubano Changuito la realtà del mpondo è sviscerata in una full-immersion da modalità campo di registrazione, che si inebria nella vitalità delle sonorità indigene (Fidel Mpondo), mentre in Ethno Trance Live si tenta anche l’innocente esperimento della trance ricavabile direttamente dall’ipnotismo del tenore musicale di marimbe e voci.
Ancora oggi Dizu Plaatjies non sembra pago di divulgare la sua tradizione ma è anche chiaro che come tanti musicisti di esperienza cerca di trovare punti validi di innesto con altri generi: lo conferma l’ultima pubblicazione Ubuntu – The common string, in cui si cerca di raggiungere un compromesso migliore di quanto fece Makeba, lavorando sulla doppia lingua e su un suono in cui le determinanti etniche restino nei confini di arrangiamenti rispettosi. Se Langa Ola sembra un outtakes di Graceland, Bantu Biko si presenta come l’unico probabile hit che avvicina con gusto la moderna dimensione del rap; nel complesso, lontani comunque dalle prospettive di una Pata Pata, Plaatjies alla fine si rifugia spesso nel chitarrista acustico Derek Gripper, un lussuoso interprete europeo della kora maliana e nella suadente voce di Thabisa Binga, sbiadendo le originali caratteristiche della xhosa music.