Viaggi ed indagini nei reparti “bassi”

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Le esperienze improvvisative del binomio Mike Nord-Georg Hofmann (rispettivamente chitarra elettrica e percussioni) lasciano sempre la fondata sensazione che il regime di regole armoniche fissato dall’Occidente parcheggi da tutt’altra parte: lasciar parlare gli strumenti significa lasciare andare le linee melodiche, perdere l’attitudine a catturarle in uno schema e cercare di proiettare i suoni e la loro carica spirituale. I pezzi di arte improvvisativa fin qui creati dai due musicisti segnalano una ricerca costante nell’impostazione di un concetto di libertà più ampio di quello esclusivamente musicale.
Tree wind & flowers” raccoglie una specifica direzionalità del duo, imbastita con il flautista svizzero Andreas Stahel, uno splendido e sottovalutato musicista che da anni combatte nei quartieri che sprigionano risonanze e tendenze post-moderne (minimalisti e modulisti); Stahel viaggia nei territori subdoli ed esoterici della famiglia dei flauti ed è artefice di una lunga attitudine prestata al flauto contrabbasso: è una personalità completa artisticamente quella di Stahel, che spazia dall’impronta contemporanea fino all’overtone singing, caratterizzando le funzioni dell’ambiente sonoro, anche se in questo trio Stahel vira decisamente sul lato ritualistico dei suoni.
In “Tree wind & flowers” si assiste ad una forma del tutto speciale di tessitura che sorvola dal punto di vista emotivo alcune configurazioni del passato, prestandosi ad un loro approfondimento: come anche sottolineato da Nord, ci si appresta a ritrovare il jungle sound di Miles Davis con le configurazioni produttive di Teo Macero, ma anche i cerimoniali combinati nelle arti del villaggio (l’Art Ensemble of Chicago si fonde nel canto mongolo); nessun particolare virtuosismo è richiesto, solo una piena aderenza al climax. In tal senso Nord è un trasformista perfetto, dal momento che spesso la sua chitarra elettrica prende le sembianze di un basso profondo o viene ridotta, attraverso il tocco sintetizzato al computer, ad un oscillatore di frequenza oppure lambisce territori programmatici secondo uno stile consolidato facendo il verso a Frisell o ad un chitarrista prog. Dal canto suo Hofmann è una macchina mistica che fa di tutto per creare il collante con i suoi partners attraverso un drumming esteticamente rivolto ad una stessa gamma di configurazioni. Gli oltre 11 minuti di (The people of) Ayotzinapa sono di una bellezza adamantina poiché non hanno solo un adeguato contenuto disponibile per una ipotetica narrazione degli eventi accaduti in Messico ma soprattutto perché impostano un “canto” della natura circostante, come se le montagne o i fiumi potessero parlare attraverso la musica e dare informazioni: ambiente ricreato ad arte, il panorama sonoro è qualcosa che ha a che fare con il senso dell’imminente, uno spiccato senso cinematografo (a proposito dell’argomento, pensavo a Peter Weir e al suo corrispondente film Picnic at Hanging rock, in cui l’ispirazione fu un dipinto impressionista di Frederick McCubbin); in Emergence, poi, è una rivolta silenziosa ed interiore l’oggetto del pericolo incombente. Mettere assieme venti liberi e fiori, significa evidenziare le incongruenze della nostra esistenza che da una parte ci assicura una meravigliosa esperienza di vita e dall’altra nasconde intatte le sue insidie.
Il cd è registrato parte live, parte in studio tra la Svizzera e l’Oregon (vedi qui un loro concerto al Capital Community Television).
A Tel Aviv il batterista Ehran Elisha ha tenuto a battesimo una nuova e promettente scena israeliana dell’improvvisazione: giovani musicisti come il polistrumentista Yoni Silver, il sassofonista Yoni Kretzmer, il contrabbassista Nadav Masel, il chitarrista Ido Bukelman hanno tutte le carte in regola per esportare un efficacissimo flusso free jazz esteticamente valido e legato agli splendori statunitensi, da Ornette Coleman a Roy Campbell. Aggiungete a questi nomi quelli di questo trio immacolato per la registrazione del primo cd alla Leo: si tratta del contrabbassista Shay Hazan, del batterista Nir Sabag e del suo leader, il clarinettista basso, Ziv Taubenfeld, che nel 2013 ha vinto un contest destinato ai talenti jazzistici provenienti dai conservatori nord europei. Taubenfeld è parte di un’espressione libera, metà jazz metà libera improvvisazione, che ha avuto modo di materializzarsi in alcune formazioni riunite dallo stesso Elisha (vedi qui un’ottima esibizione al The Hanut nel 2013 in trio con Masel), nonché tramite la partecipazione alle esperienze meno sovversive del The Chillin’ 4tet e del Kuhn-Fu quartet.
In casa Feigin si sa d’altronde che l’amore per le proposte naif ed intrise nella libertà più sincera sono le benvenute e Taubenfeld (classe 1986), che in Olanda sta avendo l’apprezzamento anche della vecchia guardia jazzistica, costituisce sicuramente motivo d’interesse (sulla rete potete trovare un duetto con Bennink). Ci si aspetterebbe qualche sconfinamento genetico in terra d’Israele, ma in realtà ci si trova di fronte ad una personalità che al momento non permette di poter caratterizzare un suono con radici etniche, per quello che sembra invece, in pienezza d’intenti, un esercizio di improvvisazione europeo per la parte senza idioma. D’altronde chi conosce la lezione dell’improvvisazione non idiomatica, sa che i labirinti delle idee libere non escludono nulla e soprattutto filtrano quasi naturalmente un’ascendenza orientale; di questo Taubenfeld potrebbe già dare prova specifica.

Di stanza ad Amsterdam, il trio di “Bones” è una registrazione fatta in una camera preliminare di un concerto e riflette la capacità di Taubenfeld di azzerare i preconcetti su un certo tipo di sonorità del clarinetto basso, suo attuale ed unico strumento utilizzato; qui, in mezzo ad una calda e soffusa tappezzeria ritmica (che non manca di mostrare sporadicamente le sue ipnoticità), Taubenfeld esegue la parte del libero esploratore di timbri. Tanto per schiarirci le idee, si tratta di un’esplorazione diversa da quella profusa da molti improvvisatori al clarinetto basso (l’onda temporale accoglie Braxton fino ad arrivare a Stetson); da parte del giovane israeliano non c’è nessuna intenzione di farlo diventare violento, sistematicamente troppo rough o ipersaturo; c’è invece la forma del dialogo, che si instaura con differenti soluzioni adottate mediante un uso semplice ma viscerale della tecnica estensiva: lo scopo è semplicemente puntellare una tranquilla e gioviale considerazione, lavorare su una mediamente loquace o cercare di ricalcare intarsi di melodie del parlato (nell’iniziale lenta Under the Ab Tree si incrociano cellule di Night in Tunisia e S.Thomas); è un gusto quasi esotico dello star bene e della libertà espressiva quello che Bones certifica e che alla fine porta alla convinzione di avere tra le mani un’ottima iniziazione, per costruire un futuro comunicativo ancora più brillante.

 

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.