La nuova cinquina di Ivo Perelman

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Ivo Perelman non smette di stupire e si presenta con cinque nuove pubblicazioni (tutte per Leo R.) che vedono il sassofonista registrare tre di esse in duo e due in quartetto: generalmente si scorge un Perelman ultra attivo nel pensiero, alla ricerca di nuove soluzioni, che in linea generale sembra insistere su una rimodulazione del suono di campioni del jazz passato come Lester Young, Ben Webster o Dexter Gordon, in possesso di un proprio “soffio” distintivo, tanto piacevole ed ineludibile da poterci argomentare con elementi moderni. E’ qualcosa, però, che deve riconciliarsi con l’espressionismo astratto profuso dal sassofonista brasiliano, quella caratteristica che ci ha fatto amare a lungo Perelman per la sua unicità: i risultati di questo nuovo corso da una parte rendono più difficile la constatazione di un nuovo germe produttivo di musica, dall’altra non ci permettono assolutamente di addebitare i suoi lavori come residui di valore.
Spendo qualche parola su ognuno (come ho sempre fatto per Ivo) partendo dalle soluzioni in duo:
“The Hitchhiker” è il duetto con Karl Berger, stavolta nei panni del vibrafonista e non del pianista. Berger adotta uno stile di percussionismo circolare, descrittivo e non virtuoso, che serve come base di appoggio per le evoluzioni di Perelman. La sensazione è che Perelman bari impietosamente di fronte alla diversità di suono del suo strumento rispetto al vibrafono, tuttavia lo stesso strepita silenziosamente e dialoga benissimo con il tappeto sonoro offerto da Berger; vi sono anche puntate sperimentali nel ricorso al suono liricizzato dal canto ottenuto senza strumento, lavorando solo sul bocchino (Pride and prejudice). Sono note scultoree supervissute, con una carica vibrazionale unica, derive espressioniste addomesticate, ma ben spiegate dal sassofono tenore. Seguendo gli istinti di Perelman si può certamente acclarare che l’ambiente è favorevole ad una modificazione genetica ad origine controllata di Dexter Gordon; questo primo esperimento con vibrafono di Perelman si mostra molto avventuroso e poco drammatico nel tratto, oltre che tecnicamente impeccabile.
Per “Blue”, duetto con il chitarrista acustico Joe Morris, la materia va divisa con lo stile spezzettato post-Bailey dell’americano. Perelman vuole sfidarsi con uno strumento (la chitarra acustica) che non gli dà conforto nelle pause: non appena si staccano le mani da essa Perelman è solo nell’improvvisazione. A tutti gli effetti primo duetto specifico tra sax e chitarra acustica, Blue non vuole essere sinonimo di blues, sebbene lo potrebbe essere nella tenue astrattezza delle dimensioni musicali profuse. Se per Blue si vuole indicare una situazione di solitudine pittorica, indicata cioè dal colore, l’intento allora è quello di raggiungere un’intimità e non una situazione di rivolta (come in un classico blues).  Ad ogni modo qui le intenzioni vere sono di costruire una versione aggiornata di Lester Young, in un intricato labirinto dell’anima che deve accettare le sue clausure (il dipinto di Ivo in copertina è sinonimo di questa esplosione creativa confinata all’angolo sinistro da fasce di colore blu chiudenti la prospettiva). Un’ulteriore operazione sinestetica di Perelman dopo quella recente di Complementary Colors, che prova che la sua musica va vissuta seguendo ideologicamente il percorso di un dipinto libero.
Quanto a “Corpo”, vedere Ivo e Matthew comparire in copertina a corpo scoperto e in controluce mi ricorda quello che il percussionista Schick fece a proposito di ?Corporel di Vinko Globokar; tuttavia qui il riferimento è ad un gruppo di danzatori brasiliani, il Grupo Corpo, una mistura di samba e capoeira (l’arte delle acrobazie armoniche degli indigeni del Brasile), che sembra abbia ispirato Perelman, particolarmente emozionato da questa tipologia di danze. Questo cd si inscrive tra i suoi migliori di sempre: è studiato, meditato nel pensiero, porta i segni visibili di un’approfondimento di Perelman nei territori dell’improvvisazione svolta negli intervalli, senza subordinazione tra essi. Se Shipp nel suo pianismo aveva già paventato da tempo un jazz parecchio impostato sul modernismo pianistico del novecento con sue subdole caratterizzazioni, era Perelman che restava attaccato al presente, contrastando le commistioni tra vecchio e nuovo con il suo abstract free. Qui invece non contrasta, segue la stessa linea di condotta, smorza del tutto lo strazio accecante del suo sax per condensarlo in un puntillismo sonoro, qualcosa che, sommandosi al lavoro di Shipp, scappa nel contrappunto (i due musicisti sembra che stiano riscoprendo il gusto dei corali di Bach e degli insegnamenti barocchi degli strumenti a fiato di Telemann). Le 12 parti della suite costruiscono un ennesimo miglioramento dell’affiatamento tra i due musicisti e all’improvvisazione, che si nutre di più canali di espansione, sebbene costituiscano per il sassofonista brasiliano un evidente rimescolamento del forte stile espressivo che lo ha accompagnato durante la sua carriera.
Nelle note interne di “Soul”, Neil Tesser evidenzia come Perelman ingigantisca il rinnovo di interesse verso la materia seriale (dal trittico viennese a Carter e Messiaen), evidenziando che esso è un punto di partenza per affinare la sua tecnica improvvisativa; lavorare senza intervalli di preferenza permette all’improvvisazione al sax di focalizzarsi meglio su alcune sue qualità. Perelman parla di espressione muscolare ancorché rilassata, che gli consentirebbe di trasferire i comandi dell’arte tai chi nella colonna d’aria dello strumento. Dal punto di vista estetico, Soul, quartetto temporalmente contemporaneo a Corpo, a cui si aggiungono Michael Bisio (cb) e Whit Dickey (bt), è un disco di jazz a tutti gli effetti che non ha forse la stessa rigorosità di Corpo ma è ugualmente affascinante in bellezza: c’è più democrazia sul pensiero improvvisativo e autonomia nel processo di interazione e perciò risulta tendenzialmente meno celebrale di Corpo. Troviamo un Perelman particolarmente ispirato in questa registrazione, che costruisce spesso dei climax alla sua maniera: ad esempio in Eyound un lancinante acuto termina il pezzo o in Belvedere un impasto subdolamente bachiano di Shipp e Bisio si coaugula in un suono corale che si movimenta in antitesi con quella calma ricercata nell’arte marziale. Soul è in sostanza ineccepibile.
Ritorna la concitazione per Breaking point, quartetto imbastito con Mat Maneri, Joe Morris e Gerald Cleaver: cascate di note e ritmiche che si appoggiano ad una veloce evoluzione della melodia e al senso completo dell’atonalità musicale; in alcuni momenti lancia messaggi supersonici come succede nei livelli raggiunti dai musicisti in Catch 22. La visione camerale di Maneri al violino e un Morris concentrato asetticamente sul contrabbasso, permettono di instaurare un’improvvisazione che sembra più appartenere al mondo classico di Carter che ad un principio idiomatico di jazz. Ma ne escono fuori degli impasti vibranti, come in The haunted French Horn, celebrale ma perfettamente in grado di creare scenari immaginativi (personalmente ho pensato a quei dipinti astratti pieni di particolari da scorgere, ma chissà se non si possa applicare questa musica anche ad un quadro di Bruegel).
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.