
Chi conosce la musica di Philip Corner (1933) conosce anche i suoi punti di vista: con una visione specifica dell’evoluzione della musica, Corner ha attraversato con il movimento fluxus un’ottica che si è prestata da sempre alla disciplina delle interpretazioni. La ricostruzione discografica della sua carriera artistica è di una difficoltà tale da lasciare il passo anche lì a delle “interpretazioni”: la necessità di far emergere registrazioni per Corner è stata direttamente proporzionale alla scoperta dell’acqua calda, non solo per via delle scontate riflessioni sull’inutilità di esse (inquadrabili nella più ampia teoria stabilita da Cage e dal movimento in materia di unicità della perfomance) ma anche perché esse custodivano probabilmente un ricordo prezioso di uomini, mezzi ed avvenimenti.
Negli ultimi anni sembra che Corner stia autorizzando la pubblicazione delle eterogenee versioni di una sua composizione per piano preparato. “Through Mysterious barricades” è il motivo pianistico di Couperin a cui Corner dona un rispetto oltremisura ed è lo spunto per allacciare un rapporto proficuo con elementi esterni (accompagnare la danza o tendere alla saturazione dei livelli del pianoforte), con l’improvvisazione, e con una sorta di “variazioni” che sono lontane parenti delle trascrizioni. Le due versioni intercettate dalla Setola sono tra quelle più “antiche” in possesso di una registrazione, poiché vengono dalla residenza a Cavriago nel 1991 e dall’ufficio di etnomusicologia di Corner dell’università di Rutgers nel New Jersey; sono accomunate da quello che Corner chiama fattore “esotico”, poiché si tratta di fare i conti con un vecchio gamelan di Java e delle percussioni nigeriane. Le Asian Barricades si confondono all’aria aperta (con tanto di riflettori su suoni naturali, cinguettio di uccelli e rumori di tagliaerba), mentre le African Barricades sono il lascito della ricerca dell’etnomusicologo Nwabuoku (Corner, con un gesto magnifico, le fa rientrare all’interno del piano come preparazione). Quanto prima accennato al candore dei ricordi è qui trasferibile nelle dediche esplicite ed implicite che ci pervengono (la gallerista Emily Harvey, il dr. Nwabuoku, ma anche la nostra Rosanna Chiessi), una riconoscenza che si concentra nel tenore delle due versioni che probabilmente pagano dazio ad una celebrazione, tutta interna nella sua mente per pensiero e stile, del carattere conosciuto nei dedicati scomparsi; è qualcosa che non è difficile scoprire nelle pieghe di un pezzo che coniuga passato, presente e futuro (quest’ultimo è il frutto della meditazione sull’universo dei suoni instaurato). Il Corner pianistico permette delle differenze con Cage ed altri compositori simili, poiché lancia nel suo modello anche i poteri della risonanza (i clusters lavorati in un certo modo sono un esempio) e la forza della ripetizione non banale (una sorta di minimalismo sui generis): sul minimalismo Corner ha più apprezzato gli effetti che le forme, classificando come tale anche alcuni aspetti della polifonia di Léonin e Pérotin e non c’è dubbio che il minimalismo di “sostanza” da lui ricercato, pur entrando in collisione con il pensiero accademico, si pone a garanzia della preservazione dello strumento in maniera antitetica a quanto prodotto nella filosofia fluxus primordiale. Se seguiamo l’excursus storico del compositore si nota che negli anni cinquanta egli documentava la “frantumazione” delle concezioni del pianoforte (le sue esibizioni viravano alla distruzione fisica dello strumento in real time), quando poi nei sessanta la verve culturale si fece carico di scoprire i punti di contatto extra-occidentali, costituendo il collante delle preparazioni e della scoperta minimalista; negli ottanta/novanta la vicinanza a Satie è stata fase preparatoria all’animismo che sembra attraversare il suo attuale cammino. Ma più che chiederci se quel vecchio movimento intermediario delle arti sia rinnovabile e in che modo, è forse più consono interrogarci sulla sua intelligente richiesta di ascolto, che è suscettibile di trovare ancora un consenso in questi anni di difficoltà culturale.

