Pianoforti minimali: magnifiche celerità e fluidificanti miscele

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Melnyk opera propria, Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale
Nella prospettiva minimale della musica ogni musicista sceglie il suo “tempo”. Si tratta di una conquista molto meno scontata di quanto si pensi, perché la particolare funzione ritmica attribuibile all’attività dei singoli musicisti, acquisisce proprietà che la mettono in primo piano, reggenti dell’attenzione completa sul tema e della costruzione dell’ossatura narrativa; in un recupero indiretto della tonalità, i pianisti minimalisti hanno aggirato con un semplice stratagemma intuitivo (quello della ripetizione) l’organizzazione classica della scrittura e stimolato la “profondità” dei suoni, intesa in senso di durata. Da questo punto di vista non c’è molta differenza tra quanto provocato da Scelsi nel rigiro prolungato degli armonici del piano e quello dei pianisti minimalisti, che hanno inteso trarre da questa combinazione i processi delle ridondanze e dei cambiamenti “organici”.
Nel cosiddetto post-minimalismo di seconda generazione, ci si è dati molto da fare per arricchire di significato i concetti appena esposti e, riguardo al tempo, un musicista ucraino ne ha dato una versione del tutto spinta dal lato della velocità di esecuzione: Lubomyr Melnyk (1948) nel 1979 componeva una suite di 48 minuti, lavorando essenzialmente sull’arpeggio e sulle sue sfumature sonore, schiacciando a palla il piede sui pedali inferiori del pianoforte e masticando velocità da fuoristrada; su “KMH: Piano Music in the continuous mode” Melnyk dimostrò di poter enfatizzare l’arpeggio riuscendo a suonare mediamente 15 note al secondo sul pianoforte (con punte di 20) per oltre un’ora, sposando contemporaneamente una sorta di piena trascendenza spirituale della perfomance. Questa innovazione di processo profusa da questa cascata di note avvolgenti, conduttrici di risonanze ed overtoni venne chiamata da Melnyk modalità “continua”; su di essa ben poche critiche potevano essere mosse dal punto di vista emotivo, piuttosto il problema risiedeva nel fatto che dopo aver rotto un incantesimo, lo stesso andasse alimentato, ciò che inficiò le opere successive facendole diventare monche del requisito della novità. Nella realtà le registrazioni successive a KMH dimostrarono anche che Melnyk tentava strade parallele: la ricerca di figure “classiche” di risulta (come nella sinfonia St. Petri o nella Requiem), con l’aggiunta di strumenti tipicamente ascrivibili per forme e contenuto al romanticismo della musica, lo ha da sempre esposto ad una commistione di elementi pericolosi, che va però attentamente ascoltata per evitare lo scantonamento nella proposta neoclassica senza infamia e senza lode. Melnyk ha superato questo difetto quando ha calcato la mano sull’innovazione come in Wave-Lox o Windmills con doppio pianoforte, trovando proprio nello slancio tecnico l’antidoto per una deviazione incolore. C’è da sottolineare, però, che Melnyk, anche nelle commistioni citate, ha utilizzato in maniera onnicomprensiva i climax pianistici per rendere edotto l’ascoltatore di come la sua opera non sia altro che una continuazione di un tema barocco o di un notturno romantico alla Chopin; nella sua formula, quella ripetizione si assesta e si ferma per dar spazio a queste figure retoriche, segnalandole sotto forma di note singole che lampeggiano nella trama musicale, intrappolate nell’arpeggio. La nuova linfa spirituale che sembra riemergere dopo il passaggio di Melnyk alla Erased Tape Records (l’etichetta indipendente di Londra di Frahm, Broderick, Arnalds e del duo O’Halloran/Wiltzie, una che ha modellato un proprio sound di moderna musica classica, tra l’afflato indie e la percezione accademica) ha permesso all’ucraino di imporre come pionieristica la sua musica tra una serie notevole di musicisti dispersi nel sistema in cerca di un punto di sbocco e, negli episodi più riusciti (i Three solo pieces e Rivers and streams dello scorso anno), rigonfia l’importanza della funzione ritmica calata in una realtà che è capace di farvi perdere il senso del tempo reale in meno di cinque minuti: un’esperienza che sembra accompagnare anche il rapporto tra razionalità ed estasi profusa nelle prestazioni del pianista ucraino (vedi qui un’esibizione ben registrata per il canale televisivo NDR di Amburgo).
Fissare personali stimmate ritmiche è qualcosa che ha pervaso anche la struttura della ripetizione fornita dal pianista Chris Abrahams (1961): dei Necks (il suo più importante veicolo espressivo) vi ho già parlato in passato, qui vorrei sottolineare come siano state ben evidenziate le qualità stilistiche nella parallela carriera solistica, che non ha allontanato gli spettri jazzistici della formazione. Almeno fino a Streaming il pianista neozelandese non ha avuto problemi nel rendere possibile delle investigazioni al piano minimali in possesso di una radice linfatica jazz sottesa, con un forte senso della colorazione (cristallizzare in un tutto compreso l’effetto-essenza del pianismo di Reich, Waldron e Mc Coy Tyner); Streaming in specie è stato probabilmente il suo high-point, grazie ad un lavoro infaticabile sulla tastiera foriero di più soluzioni, con il ritorno in pompa magna della prestazione di “lunghezza”. Poi Abrahams ha capito che bisognava percorrere altre strade e in tal senso l’incontro con Lawrence English, il musicista e produttore della Room40, è stato probabilmente essenziale per fare entrare in contatto il suo minimalismo prevalentemente pianistico, con l’elettronica costruita; grazie al taglio ricavato dai sintetizzatori ed usufruendo di un piglio quasi naturalistico da assegnare all’elettronica, Abrahams in Thrown sembrò aver raggiunto un eccellente grado liminale della sua musica (si noti in tal senso la tremenda forza psicoanalitica di Remembrancer), l’equilibrio prima che il suo piano cominciasse a subire una pesante detronizzazione. I recenti apparati sostenuti in Memory night e nel recentissimo Fluid to the influence indicano delle vie espressive che riportano in vita il tema dibattuto della funzionalità dell’integrazione tra suoni elettronici, simulatori della realtà quotidiana e suoni acustici, allo stesso modo con cui i primi si sono confrontati anche nel mondo dell’improvvisazione: ne emerge, allo stato attuale, un quadro incerto, decisamente difficile anche per Abrahams, in cui non si può far a meno di pensare che non sia un male se la riflessione minimalista sia molto contenuta e che gli esperimenti processati in studio lancino una sfida interpretativa che nuoce alla soddisfazione totale.
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.