Molti ritengono che la musica stia attraversando un momento travagliato: non è solo un problema di novità o di possibilità espressive, quanto piuttosto sono le direzioni che preoccupano: “giudei” della musica o falsi profeti sono all’ordine del giorno. In questa festa regale delle apparenze, una ristretta cerchia di artisti se ne distacca amaramente per l’impegno nel rimarcare un concetto oltre la musica, che sia in grado di reggere i tempi attuali e prefigurarne alcuni futuri. Vi basterebbe una sola mezz’ora di ascolto di un concerto fatta assieme a Roberto Del Piano per capire la competenza del musicista e l’esattezza nel delineare le realtà musicali a suo dinanzi, come è capitato a me. Di fronte al suo primo cd da solista, arrivato in un momento inatteso della sua carriera, tocca confrontarsi proprio per delineare prospettive: di Del Piano non devo certo esplicitare l’importanza che ha rivestito nel jazz italiano, quando negli anni settanta sorgevano compagini come il Gruppo Contemporaneo o l’Idea Trio di Gaetano Liguori, formazioni in cui Roberto ha calcato il ruolo del bassista impegnato e militante (si pensi a Aspettando i dinosauri e ai due LP Pdu Cile Libero, Cile Rosso e I signori della guerra); così nondimeno la sua figura è stata sempre presente nell’improvvisazione che conta, soprattutto quella attuata tramite progetti interdisciplinari ed ironicamente avant-garde nei combo sperimentali o tendenti alle arti perfomative (qui il riferimento è al teatro musicale dei Neem e al Musimprop), sebbene non si possa enucleare in maniera netta un contributo a lui solo ascrivibile data la natura collettiva delle esperienze. Mi limito a queste segnalazioni perché soggettivamente le considero più importanti, ma l’elenco “spatafiata”* che ho ricevuto e che avrei dovuto pubblicare, penso serva solo per dimostrare quanto sia apprezzato come musicista e come uomo. Una raggiante modestia si comprende da sola!.
La prolungata fase di insoddisfazione degli ambienti musicali lo ha portato ad abbandonare il mondo musicale per molto tempo finché, stimolato da alcuni suoi colleghi e da una rinnovata vitalità dei modelli improvvisativi, sono ritornate le esibizioni in pubblico (il Fonosextant, i Five Roosters, gli 876+, uno splendido duo con Mazzon e la condivisione/creazione del modello Tai Orchestra). Non so quanto ci sia di vero nell’annuncio di un nuovo ritiro, ma il dato di fatto è che questo succede in concomitanza di un evento eccezionale dell’artista: la sua prima concezione discografica totalmente riferibile alla sua visuale artistica così come è aggiornata oggi. “La main qui cherche la lumiére” imposta due sets con alcuni dei suoi musicisti preferiti ed adatti al suo tipo di interazione: nel primo troviamo Massimo Falascone (con tanto di sassofoni ed live electronics), Pat Moonchy (voce e Tai Machine), Silvia Bolognesi (contrabbasso) ed alcuni manipolatori del suono e del crackle (Neko, P. Falascone, Masotti), mentre il secondo è dominato dai clarinetti di Marco Colonna, con la batteria saltuaria di Stefano Giust e, in tre brani, l’alto o il baritono di Falascone. La divisione appena accennata non è solo informativa ma corrisponde anche ad una bio-diversità emotiva dei contenuti: se c’è una mano che tenta di afferrare la verità questa circostanza può essere raggiunta in differenti modalità. Del Piano la fa sviluppare mettendo in contrapposizione il diavolo (nel primo cd una musica terribilmente aggressiva, piena di volute asperità sonore) e l’acqua santa (nel secondo cd una musica più eterea, leggiadra contaminazione genetica del jazz); in poche parole una parte esprime un vulcanico espressionismo astratto, l’altra un improbabile impressionismo da camera.
La configurazione di Né cane né gatto ci introduce immediatamente in un ambiente dogmatico, che trova compimento nella parte centrale della prima parte della raccolta quando il clima generale si chiarisce in Scarliga Merlùss, che richiama in maniera subliminale uno stato pagano dell’improvvisazione, ciò che potrebbe serpeggiare in Apocalypse Now se esso fosse immerso nei panni dell’improvvisazione libera; è un’idea di atonalità completa quella proiettata dal basso di Del Piano che lavora sulle condizioni umorali dei brani e si contorce sullo strumento con veloci frammentazioni o pulsazioni del tutto anti-convenzionali, frutto della tecnica sviluppata dopo l’infortunio alla mano sinistra; fondamentale il supporto di Falascone, che indovina tutte le modificazioni di un’elettronica che va oltre la riflessività (suoni e tagli disomogenei sono al servizio di una rinnovata trasversalità dei contenuti), della Moonchy, che imposta la sua eclettica vocalità nelle terre dei pentimenti e delle preghiere, e della Bolognesi, che dividendosi tra pizzicati ed archetti contribuisce alla parte cupa ed assediata dell’esibizione; sono messaggi dell’inconscio quelli di Del Piano, che emergono trasparenti anche in Four hands double bass o nelle due stranianti dediche a Michel Waisvisz (Michel e Waisvisz appunto), che in mezzo ad effetti di elettronica brulicanti di impertinenza e autoironia, ricalcano un’interpretazione viscerale dell’elettronica applicata all’improvvisazione. E’ un puntellamento del basso che simula l’azione del metter chiodi su un muro o che vuota lo stomaco grazie al collegamento degli ausili elettronici come succede in Swami katabanda, un avanzato ripensamento dell’azione del basso in un happening da epopea futuristica.
Un’intermittenza sonora introduce invece la seconda parte e la collaborazione con Marco Colonna e Stefano Giust in Meeting in Milan; qui il free jazz si configura come approdo alla realtà urbana. Una forma libera che comunque fa percepire insofferenza e costruisce una voce di riflesso (il basso snocciola note senza priorità) in connessione a quelle bellissime degli altri partecipanti: in For strings and reeds le astrazioni e compulsioni di Del Piano si scontrano con le articolazioni da camera di Colonna: si entra in un compendio improvvisativo le cui caratteristiche lo evolvono in stato compositivo, quasi scrittura contemporanea che raggiunge il suo completamento nella successiva Polyphonic organization, dove si crea per magia un subdolo canone medievale; si cercano anche porti sicuri come in Quiet place o Tired blues, con basso pensoso e profondo contro clarinetto (e nel secondo caso batteria sfavillante di Giust) che riporta il jazz nel territorio del dialogo puro. Colonna, poi, sale in alto in Mirrors, ipnotica rappresentazione del flusso continuo determinato dalle tecniche di respirazione, ma anche Eyeliner scruta ottimamente i suoni reconditi del basso in un ambiente sonicamente impostato allo scopo.
La main qui cherche la lumiére è un prodotto sentito in ogni sua nota, dove anche un’unghia appoggiata sullo strumento ha una sua giustificazione. Nonostante ci siano dei flashback che ricordano la free improvisation europea dei settanta (gli scorpori di elementi dell’Instant Composers Pool o delle orchestre di improvvisatori inglesi), il tutto vive di luce propria, dominato dal senso atipico creato dal basso di Del Piano, a cui non si possono nemmeno attaccare delle costanti di stile (di Pastorius c’è molto poco, per Swallow si viaggia su altri binari).
Lavorato di fino, non vuole solo evidenziare le potenzialità sonore del basso elettrico in strutture alternative della musica (una ricerca che di per sé è una rarità) ma anche uno stato progettuale dell’umanità, il suo sentirsi ancora in grado di macinare arricchimenti espressivi e di guardare senza remore ai vantaggi che l’arte astratta può ancora fornire.
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Nota:
*questo è il termine spassoso da lui usato nel rispondere al mio appello.