La scintilla dello scrivere qualcosa su Paul Simon mi è venuta qualche giorno fa leggendo una recensione del suo ultimo cd Stranger to stranger sulla stampa estera: la domanda che opportunamente un giornalista si faceva, era sull’attualità di un personaggio della pop music in un’era in cui la musica pop si è modificata in maniera direi preoccupante. Non voglio fare l’avvocato difensore della mia generazione, anche perché non credo in questo tipo di pregiudizi, ma sarebbe utile interrogarsi sul fatto che gli attuali tentativi di Simon di colpire l’immaginario delle masse giovanili hanno armi piuttosto diverse da quelle che Simon ha utilizzato nel passato, quando venne alla ribalta come un giovane timido e riflessivo, perfettamente all’opposto del chiasso prodotto dall’attivismo dei ragazzi del ’68. Ciò che si è modificata nel tempo in Simon, d’altronde, non è solo la ricerca dei mezzi espressivi, ma anche la sua “umiltà” rappresentativa, passata da un ripiegarsi su sé stesso ad un clima di insofferenza verso la società, una circostanza che si può dimostrare facilmente approfondendo il percorso seguito dal musicista.
Dopo l’esperienza felicissima con Art Garfunkel, la carriera solistica di Paul non ha certo vissuto delle costanti pubblicazioni che l’industria discografica imponeva agli artisti più famosi; è stato un lusso che Simon ha sempre relazionato all’esigenza di esprimere qualcosa di nuovo soprattutto a livello musicale. E’ quindi con facilità che si può accedere alla sua discografia che qualitativamente non partì proprio bene con l’omonimo album del ’71 e There goes rhymin’ Simon nel ’73, raccolte sbrigative che contenevano melodie imparagonabili rispetto a quelle del binomio con Garfunkel; fu il clima fusion degli anni settanta a dare una svolta al suono dell’americano, consentendogli di erigere i suoi primi grandi lavori di pop: pochi episodi distraenti ed un sound immerso nelle tastiere e nelle chitarre elettriche discorsive rendevano Still crazy after all these years nel ’75 molto affascinante. E’ qui che probabilmente giunge a compimento quella accondiscendenza ad una forma confidenziale di canzone che vuole evidenziare i pensieri dell’uomo comune, lontano da intellettualismi sterili così come da becere considerazioni di vicende umane; Simon è l’uomo delle emozioni “controllate” e in quel disco, in una facciata A perfettamente calibrata nei toni, affronta i temi del ricordo e della correttezza relazionale, della piccola città natale che non cambia mai, delle storie di amore e di riscatto, pronunciando parole che sembrano provenire dall’amico che abbiamo di fianco. La delusione parziale del successivo One trick pony nel 1980 venne ampiamente ripagata dal bellissimo Hearts and bones tre anni dopo: servendosi di una vera troupe di musicisti fusion importanti (tra cui spiccano le performance di Al di Meola, Marcus Miller, Airto Moreira e Michael Mainieri a vibrafono e marimba), Simon riaffermò con una semplicità penetrante la difficoltà delle relazioni coniugali: un grosso acuto in Hearts and bones (con echi dell’epopea con Garfunkel), sovraincisioni di cori perfettamente costruiti sul suo modello stilistico (con reminiscenze doo-wop) nell’osservazione sociale di Song about the moon, nonché la cattura dell’incomunicabilità affettiva in Train in the distance; c’è anche il tempo per due omaggi tenerissimi all’arte dei coniugi Magritte e a Johnny Ace.
Hearts and bones fu nettamente sottovalutato (anche a quell’epoca) dando forse il pretesto a Simon di entrare in una concezione più ampia del fattore musicale e tematico: Graceland, frutto di un innamoramento per la musica sudafricana dà ufficialmente il via alle infusioni della musica occidentale di consumo con le altre culture (con tanto di ingiustificate critiche politiche) e promulga la trilogia etnica che lo vedrà mischiare simmetricamente pop songs con canti e strumenti di alcune etnie specificatamente prese in considerazione; dopo l’enormità di Graceland, verranno The rhythm of the Saints, che si divide tra America Latina (Brasile soprattutto) e alcuni paesi africani (Sudafrica e Camerun), e Songs from the capeman (sette anni dopo), incentrato sul Portorico. In queste operazioni da più parti si è obiettato su un cambiamento degli umori, diventato più ottimistico; tuttavia lo stile di Simon (uno dei più riconoscibili in assoluto nella musica rock) non fa altro che scambiare anche qui il tono confidenziale con un amico, che stavolta è a turno un discendente zulu, un olodum di Salvador o un portoricano.
I lavori presentati nel nuovo secolo inaugurano un corso ad intermittenza della sua classicità, dove accanto ad una normalizzazione della scrittura tradizionalmente posta a servizio delle melodie, spicca per diversità il tentativo di costruire nuovi idiomi più al passo con i tempi: in Surprise, dove è sintomatico ricercare innocenza fin dalla copertina (che mostra un bimbo con gli occhioni aperti), Simon si preoccupa di fornire una versione moderatamente electro-sound delle sue canzoni con i tocchi della consolidata produzione di Eno, su uno sfondo che intercetta il cambiamento sociale e le tremende conseguenze delle guerre. Le tematiche di Simon si sono oramai spostate nella denuncia, per cui non deve sorprendere l’occhio scannerizzato in pixel (un’espressione del fotorealismo di Chuck Close) che appare in Stranger to stranger: esso non fa altro che confermare questo orientamento profetico che si avverte nella preoccupata sessione sull’arroganza e ignoranza profusa in The werewolf o dell’irrespirabilità dell’aria che tira in termini di divisione sociale in Wristband. Si presenta come un compendio delle attività musicali preferite di Simon, che sceglie allo scopo un produttore come Cristiano Crisci (Clap!Clap!) imparentato con i beats afro-americani e i suoni microtonali emessi da strumenti casalinghi (il Cloud-Chamber Bowls e il Chromelodeon), frutto della creazione di Harry Partch, ma soffre dello stesso difetto della pop music di oggi perché non chiede minimamente alla musica il gesto di librarsi.