Improvvisare in compresenza di un corpo di regole costituisce per molti musicisti uno stimolo ancora più forte dell’improvvisazione tout court: il passato insegna che ognuno ha scelto un metodo o una equilibrata misurazione delle parti in causa e per questo tramite è riuscito a fornire illimitate ibride combinazioni tra l’arte della scrittura e quella dell’improvvisazione.
Due recenti lavori pubblicati dalla Leo R. nati a Colonia, dimostrano come il principio possa essere applicato proficuamente sondando aree di commistione vecchie (a) e nuove (b) per approdare ad ulteriori forme espressive.
a) Di Simon Nabatov conoscete bene le vicende, che ho spesso riepilogato in questo sito: da molti anni Nabatov in concerto si unisce progettualmente al violista classico Gareth Lubbe, per dare vita ad un duo che lavora con strutture musicali che sono al confine tra classicismo/romanticismo ed improvvisazione; a ben vedere, quindi, un’area di scavo molto approfondita che lambisce leggermente le tante scoperte del novecento. Lubbe, poi, non è solo un violista riconosciuto, ma è anche un eclettico cantante difonico (vedi una dimostrazione qui), intento a produrre novità nelle distinzioni melodiche dei suoni emessi dalla voce.
“Lubatov” accoglie due registrazioni dalla forma classica in parti e uno splendido salmo (Psalm) completamente settato per l’evoluzione espressiva di Nabatov e del canto armonico di Lubbe, dove gli echi di John Taylor e degli Azimuth portano alla memoria un umore melanconico riallocato sulle capacità dei due musicisti. La sensazione è che il sudafricano, stabilitosi in Germania da tempo, sia il protagonista dell’idea musicale con Nabatov. Il pianista russo lo appoggia come un falco, dandogli quella stizza improvvisativa utile per creare zone e densità rilevanti; la Plush suite e la Suite in B colgono un’empatia che tiene evidentemente compresso l’arsenale esplosivo di Nabatov, ma è così che andava impostata la collaborazione, poiché il punto di partenza era espandere la classicità, portarla ai suoi avamposti territoriali dove già si respirano però correnti di differenziazione. Lubatov si trova progettualmente in un posto in cui oggi sono in pochi a risiedere nella musica.
b) di Tim O’Dwyer, sassofonista di nazionalità australiana, si scruta il senso del suo “The Fold Project”, un quintetto costituito con Carl Rosman ai clarinetti, Carl Ludwig Hubsch alla tuba e due musicisti iracheni, Bassem Hawar al djoze (un antichissimo strumento arabo a corde) e Saad Thamir ad alcune percussioni tradizionali; “The fold (Koln Project)” è uno specifico studio musicale, trasposizione del pensiero del libro The fold, Leibniz and the baroque di Gilles Deleuze, in cui il filosofo francese si appropria del concetto delle “pieghe” per dimostrare che lo stile barocco ha gettato delle fondamenta uniche nella storia dell’arte e della scienza, che possono essere rintracciate in molti degli attori della modernità (per ciò che concerne la musica Deleuze applica la teoria delle pieghe alla composizione di Boulez).
Leibniz rappresentò lo stile barocco (e le sue pieghe) perfettamente, delineando i dettagli di un periodo ancora controverso ma eccellente nel fiorire di un pensiero armonico senza troppi vincoli, una circostanza che O’Dwyer raccoglie nella valenza dell’accordo e dell’armonia, facendoli diventare atomi o “monadi” in possesso della capacità di sviluppare intersezioni con altri elementi dello stesso tipo: lo scopo dell’australiano è giungere alla creazione di un diverso contrappunto, frutto di questi incontri strumentali caratterialmente diversi (Rosman è un eccellente clarinettista della musica contemporanea soprattutto di matrice inglese e membro del MusikFabrik, Hubsch e O’Dwyer sono due eclettici improvvisatori e costruttori del suono, Hawar e Thamir portano un pezzo della cultura irachena), dove confluiscono cellule di tonalità ed atonalità, accordi consonanti o dissonanti, pause, melodie ricomposte, il tutto lambito da una fortissima volontà di fusione che non sia solo il frutto di un’improvvisazione opacizzata. Non si può fare a meno di pensare che il tipo di contrappunto intrapreso dal gruppo sia eccessivamente condensato e quasi azzerato se rapportato a quello tradizionalmente inteso nel barocco.
“The fold“, alla fine, tira fuori un sapore unico e contrastante, che sta tra il disegno contemporaneo della musica e alcune fluorescenze etniche, ma in verità si fa molta difficoltà a rinvenire quello spirito barocco di cui si parlava senza informazioni preventive. Tuttavia lo stesso mette in evidenza anche una chiara e spettacolare definizione della personalità narrativa di ciascun strumentista (vedi qui), che smussa definitivamente l’ambizione di costruire a tutti i costi un’espressione concettualmente diversa da quelle conosciute.