Elaborare la figura artistica di Alan Vega significa entrare in uno di quei labirinti che coinvolgono la cultura del diniego, l’invarianza morale e i problemi dell’anima: nella meteora variamente procrastinata nel tempo dei Suicide assieme al tastierista Martin Rev, Vega ha scolpito una delle manifestazioni più profonde dell’era post-moderna, erigendo una cerniera temporale tra estremi estetici di un certo rock: quando in piena era punk fu pubblicato l’omonimo album per Red Star Record nel 1977 ci si rese conto che i due musicisti mediavano in maniera unica le psicosi della psichedelia statunitense (frammenti dell’incedere marziale dell’organetto di Manzarek, delle distese musicali e vocali senza intonazione dei Velvet Underground, del proto-punk degli Stooges) con ciò che doveva arrivare (le stanze solitarie da plotone di esecuzione dei Joy Division, il nuovo ordine depresso applicato al rockabilly, l’elettronica synth-pop, la techno music). Non si trattava solo di fattori musicali, Vega e Rev erano i musicisti collocati al posto giusto nel momento giusto per portare l’immagine neurale (riflessa dalla rappresentazione scenico-musicale) ai suoi massimi livelli di focalizzazione: canzoni a sostegno dei terribili effetti delle guerre, visioni erotiche consumate in poche parole e frustrazioni sociali tali da portare al suicidio, furono scaraventate alle orecchie di un pubblico che fino ad allora si era “accontentato” di scandagliare il subconscio tramite le anfetamine o aveva vissuto l’esperienza terrificante della guerra con subdole prestazioni letterarie fornite nella musica; stavolta si trattava di recepire una sorta di realismo degli eventi e il timore dei suoi messaggi premonitori. Con qualche rammarico si deve ammettere che quelle sette “scottature” della psiche applicata alla musica di Suicide ’77, non furono mai più eguagliate nella carriera del duo che, escluso live e sovrapposizioni, incise appena 5 albums; al riguardo mi preme sottolineare come scartando il confuso Why be blue del ’92 e naturalmente il capolavoro del ’77, gli altri 3 lavori conservano una loro dignità e valenza superiore a quella che è sempre stata data dalla stampa: se è vero che in linea generale quella capacità di violentare le menti non si riscontra in quantità sufficienti nel “Suicide: Alan Vega -Martin Rev”, oggetto di rivalutazione va fatta per A way of life e per American Supreme, che porgono la guancia anche ad altri adempimenti stilistici. Né andrebbe trascurata del tutto la carriera solistica di Vega, partita con quel trittico innovativo del rockabilly intinto nel vortice psicologico (tra i tre sceglierei Collision Drive soprattutto) con un’appendice gettata più in là temporalmente nella collaborazione con Alex Chilton e Ben Vaughn di Cubist Blues: ciò che è nociuto è stato probabilmente la volontà di mantenere un confronto ad armi pari con i partners che nelle varie occasioni non erano perfettamente calibrati come Rev (mi riferisco ad Ocasek, alla Lunch o ai Pan Sonic di Vainio e a molte delle drammaturgie poste con Elizabeth Lamere, delle quali ricordo positivamente Dujang Prang e la più recente Station). La forza della musica di Vega è sempre risieduta nel tipo di linguaggio (concentrato in una prosa di poche battute, con scioccanti urli a supporto) di contro ad un’elettronica idealmente costruita, nella loro adattabilità al tema: paradossalmente nei trent’anni di musica post-esordio del ’77, Alan si è trovato nella necessità di sviluppare temi che aveva contribuito a formare; l’epopea del synth-pop elettronico prima e techno/musica industriale poi, hanno provveduto a normalizzare qualcosa che sarebbe dovuta essere sviluppata diversamente. Alan resta un grande artista, non solo a causa di quella storicità ed influenza di cui si è parlato in abbondanza, ma anche perché fino all’ultimo non ha mai pregiudicato altri tipi di interesse che non fossero correlati con l’arte (divisa tra Spinoza e Duchamp) e la tentata ispirazione.