Sud Corea, alienazioni e il post-rock dei Jambinai

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Sembra che i giovani musicisti di Jambinai studiassero musica popolare, musica classica delle corti e musica rituale coreana, ma di fatto non sembrano affatto lontani da uno spirito occidentale. Anzi. La loro musica è fondamentalmente post-rock. Ma di una dimensione particolare, che qualcuno l’ha presentata sotto forma di world music. Parlare di etnicità qui sembra un equivoco e lo si percepisce attraverso l’ascolto, poiché probabilmente siamo di fronte invece ad uno dei migliori prodotti di sintesi trans-culturale che il post-rock ha vissuto finora. Di gruppi intrisi nel metallo o nelle scansioni hardcore ne abbiamo visti tanti nell’Oriente nipponico/coreano, quello adeguatamente occidentalizzato, ma mi sento di poter affermare che l’unicità dei Jambinai viene alla luce per distorcere alla fine quel concetto che da sempre condanna il nostro ascolto sui prodotti rock del sud est asiatico: nella musica dei Jambinai si evita che le violenze gratuite ed estremizzate possano avere il predominio, restando ad uno stadio di compartecipazione emotiva. E non è cosa comune. Non sono per niente d’accordo sulle somiglianze con gli Explosions in the Sky; è certamente una tendenza seguita, ma sarei bugiardo nel donare somiglianze a qualcosa che assioma tanti elementi differenti: Lee II-oo suona oltre alla chitarra elettrica anche il piri, uno strumento a doppia canna di bamboo tra un flauto dolce e una tromba rudimentale; Sim Eun-yong si affida al geomungo, uno zither scuro che ha una storia antichissima; Kim Bo-mi si dedica all’Haegum, un indefinibile strumento a due corde che produce un suono stridulo e doloroso attraverso un’archetto. I tre musicisti citati, che si fanno supportare da una sezione ritmica fatta di basso elettrico e batteria, sono arrivati al loro terzo lavoro che sorprende per la sua maturità rock e per come incorpora il bagaglio tradizionale, poiché A Hermitage propone un magnifico sfruttamento di risorse strumentali che si combinano in vario modo: punk acido (Wardrobe), bassi penetranti e prolungati che sorreggono una melodia popolare (Echo of creation), oasi acustiche finemente lavorate sugli strumenti tradizionali ed offerte ad una penetrante, drammatica ambientazione rock (For everything that you lost e The Mountain), sciorinamenti rap che si inseriscono su tessuti densi di chitarre elettriche e ritmica (Abyss), la distorsione ipnotizzata da un canto trasfigurato ed alcune note di heagum e poi gradatamente annullata da una strana ed eterea atmosfera (Naburak), strascichi melodici dei Byrds di Notorious e dei Beatles di Revolver, cozzate su una trama musicale al confine con le forme libere e sperimentali (They keep silence).
C’è anche un’altro motivo per cui i ragazzi di Jambinai potrebbero costituire un antecedente buono per la società musicale ed è di natura politica. Come sottolineato da Tom Jowett nella sua recensione per la webzine The line of best fit, i Jambinai rappresentano quella parte isolata di una generazione di musicisti che condannano il veloce processo di sviluppo economico della Corea del Sud, che sembra aver influenzato la psiche dei giovani coreani fino al punto da incrementarne i suicidi. Se pensiamo di poter tracciare un parallelo tra gli eventi economici e la musica, è giocoforza insistere sul fatto che la capziosa libertà ottenuta negli anni sessanta e l’accoglimento della musica occidentale, abbia provocato uno sdoppiamento qualitativo simile all’Occidente musicale, creando dei movimenti musicali super popolari (fusioni tra rock e musica popolare coreana) in tutta l’Asia Orientale (Giappone, Cina, Taiwan ed altri) che hanno mischiato malissimo le carte: il K-pop (una mistura di Oriente e sonorità occidentali danzerecce moderne, dall’hip hop più triviale al bubblegum pop), assieme ai movimenti incoerenti del rock coreano di stampo metal o hardcore, hanno accompagnato una rapida evoluzione del Pil sud coreano ottenuta spingendo l’acceleratore sulla competizione tra i giovani, in completa assenza di affetti familiari e relazioni umane. Grow upon closed eyes, titolo di un loro brani presente in Differànce, potrebbe essere uno slogan perfetto per denunciare la rabbia degli accadimenti.
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.