Ricordi della musica nigeriana e di Fela Kuti

0
951
Quando Fela Kuti inventò il suo afrobeat la storia della musica popolare nigeriana era già ad un punto essenziale: l’attuale riscoperta delle origini musicali del più famoso musicista della Nigeria, posta nelle ristampe della musica della sua prima band degli anni sessanta, la Koola Lobitos nelle sessioni di Los Angeles, prospetta un cammino molto diverso da quello poi approfondito dal musicista nigeriano. La formula usata dai Koola Lobitos era quella della highlife music arrivata in Nigeria (e in tutti i paesi limitrofi, fino al Ghana e alla Liberia), come punto di incrocio tra il jazz portato dai colonizzatori americani (soprattutto quello che racconta delle orchestre jazz, del cuban jazz e della competizione fiatistica) con un genere popolare locale, caratterizzato dall’uso up-tempo di chitarre plasmate in stile palm-wine, ossia melodie costruite su chitarre portoghesi importate dal passaggio dei marinai (le stesse sulle quali venne suonato il fado), calibrate verso rielaborazioni semplici del calypso.
L’Highlife music si sviluppò parallelamente alla musica tradizionale, permettendo comunque lo sviluppo autoctono delle musiche popolari e la creazione dell’avventura della juju music, la musica percussiva dei Yoruba, basata sul talking drum e altre specifiche percussioni: da Tunde King (primi anni venti) fino a King Sunny Ade (particolarmente influente negli ottanta) la juju music fu molto amata e seguita dappertutto, annoverando I.K. Dairo e Ebenezer Obey tra i suoi massimi esponenti; la juju music divenne un’alternativa musicale di tutto rispetto alla proposta di Fela Kuti e lo divenne ancora di più quando quest’ultimo ruppe completamente gli schemi tradizionali con London Scene nel ’71, istituendo la più inaspettata scossa ritmica dell’Africa, aggrappata ad uno spirito di contestazione musicale ed umana, memore degli ipnotismi musicali di James Brown, del jazz, del funk e del soul della Motown. Se riprendete cronologicamente gli eventi, vi accorgerete come con London Scene, parte il Fela Kuti potente, arrabbiato, con una produzione ricchissima e spesso frammentata in Lp da due brani, che dispiegano tutto il potenziale musicale dell’afrobeat, una sintesi tra highlife, tradizioni vocali nella cornice del botta e risposta, con chitarra e ritmi in cattedra. Le forme lunghe, tipiche delle jams improvvisative, accoglievano densità strumentali e ritmiche mai conosciute in precedenza dalla musica africana: vista da un’ottica jazzistica quella di Fela Kuti è una sorta di forma bop moderna, incentrata sulla trance ritmica ma nettamente diversa dalle esperienze vissute dai primi percussionisti nigeriani, musicisti in cerca di riconoscimento che avevano spostato il loro interesse a New York: la leggenda delle percussioni Babatunde Olatunji rappresentava la sua tradizione Yoruba, mentre Solomon Ilori e i suoi compagni nigeriani provarono ad avere un feeling con il bop percussivo dilatato di Art Blakey in The african beat.
Un’analisi più accurata, però, deve riconoscere anche come il “puro” afrobeat non si sia verificato puntualmente, suscitando anche qualche perplessità nei casi in cui la musica si accostava con troppa evidenza ai modelli di Brown e di Sly and the Family Stone, mettendo in un angolino quello delle origini: il tempo, quindi, lavora per una scrematura (che una parte della critica ritiene assolutamente necessaria), che va effettuata in funzione della rilevanza dei temi e dell’apporto concreto alla “world music”, poiché spesso ciò che rimane dell’esegesi popolare è la lingua utilizzata, qualche coralità e soprattutto la trance della prestazione musicale, unico trait-de-union con l’etnicità ed unico baluardo per permetterci di contraddire le ipotesi fatte, le quali possono essere smentite solo in fase di sintesi. Fela Kuti tentò di uscire da un “piccolo” spazio per rivolgersi ad un “grande” spazio, un approccio talmente rivoluzionario da mandare in tilt persino il recupero di certe forme, rimarcando che gli effetti voluti (una Nigeria e più in generale un continente africano libero dalla schiavitù degli usi e consumi degli occidentali) debordavano l’identità popolare, rendendola insufficiente e quasi inadatta all’esportazione dei messaggi. Qualcuno potrebbe spingersi nel dire che Fela Kuti piacesse più ai jazzisti che ai cultori della world music, ma in verità l’idioma nazionale era presente e andò addirittura in crisi non appena Fela Kuti non fu più di questo mondo. I musicisti nigeriani (e quelli dei suoi paesi confinanti) post-Fela Kuti hanno creato discutibili modelli di sviluppo, assaliti da un dilagante ricorso alla reggae music e all’hip-hop, fattori che hanno contribuito a confondere le acque in un’epoca in cui la confusione musicale è vissuta equamente in Occidente. Non si può insistere sulla musica snaturando troppo le sue caratteristiche: il calore popolare, la trance emotiva e ritmica (una cosa che fece invaghire Eno e i Talking Heads) sembrano scomparsi. Anzi la stessa musica highlife è scomparsa. Se non si esclude che ci sia ancora molta musica popolare che corrisponde ad una linea di condotta che respira il passato o quanto meno ne riprende pezzi in maniera sbiadita (si pensi all’attività musicale del figlio di Fela, Femi Kuti), è anche vero che manca un’uomo guida e coraggioso come Fela Kuti che, in termini di prospettiva musicale, possa garantire un futuro di sostanza alla musica di quelle aree, creando nuove combinazioni sonore che non siano solo il frutto di una ricerca improbabile di popolarità.
Alcuni consigli discografici essenziali:
I.K. Dairo, Juju master, Original Music 1993/Ashika, Xenophile 1994
Babatunde Olatunji, Drums of passions, 1960 Columbia
Solomon Ilori/Art Blakey, The african beat, Blue Note 1962
Fela Anikulapo Kuti, The ’69 Los Angeles Sessions, 1969 Wrasse R. with Koola Lobitos/ Fela’s London Scene, Emi 1971/Afrodisiac, Emi 1973/Gentleman, Emi 1973/Confusion, Emi 1975/He miss road, Kalakuta 1975/Zombie, Cocunut 1977/Teacher don’t teach me nonsense, Barclay 1986
King Sunny Ade, Juju Music, Mango 1982/E Dide/get up, Mesa 1995
Ebenezer Obey, Je ka jo, Virgin 1983
Articolo precedenteStorie di trombe jazz atmosferiche
Articolo successivoSuoni della contemporaneità italiana: Osvaldo Coluccino
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.