In un momento storico particolarmente affascinato dall’aspetto avventuroso o dal clima rilassato producibile dalla musica (per inciso gli ottanta), la new age music offrì in maniera oscura un gancio anche alle avventure tenebrose e alle derive dell’occulto: pochissimi ricorderanno che nel 1984 il musicista inglese Brian Williams (assumendo lo pseudonimo di Lustmord), nel più perfetto anonimato incise un indigeribile lavoro destinato ad essere una cerniera incredibile di vari elementi risucchiati ab-origine: in Paradise Disowned circolavano il campionamento in loop (nei primi anni della sua stabilizzazione tecnica), i germi gotici della new age (una fosca tinta di gregoriano), l’industrial music più terrificante (ciò per cui era nato artisticamente Lustmord), la modalità deep listening da trovare nella cripta della cattedrale di Chartres o nelle cavità di Dinas Rock (ancor prima che la Oliveros fondasse le sue teorie), sponde di composizione contemporanea dark (un effetto simile a quello che Vladimir Hirsch portò in cattedra più tardi). Questa ibridazione è stata l’oggetto di un’esposizione eclettica di suoni, frutto della volontà di scavare configurazioni eretiche, dettate dalla tecnologia, dai luoghi e da un intento speculativo. Molta della sua musica è tenebrosa, spaventosa e irredimibile in certi frangenti, entra in simbiosi con una lavorazione abominevole dell’elettronica o del mezzo digitale utilizzato; tra i primi a dare un senso preciso al movimento dark ambient, Lustmord ha coltivato capacità ordite che solo sporadicamente si sono rivolte a quel luogo specifico che è lo spazio, inteso come cosmo. Tale parsimonia fu contraddetta quando nel 1994 Lustmord maneggiò i suoni della libreria composita dalle sonde Voyagers; in quell’anno l’esplorazione venne fuori con The place where the black stars hang, degna continuazione ed ammodernamento di uno Zeit alla Tangerine Dream, ma non si trattava ancora di un’elaborazione dei suoni spaziali, ma di un ateo esercizio di rappresentazione oscura di spazi cosmici. Anima inquieta e piuttosto eclettica nelle scelte artistiche (per un periodo ampio estese la sua musica fosca anche a servizio del cinema), Lustmord non ha seguito nella sua musica quel ripiegamento psicologico dell’ambient music, ossia quella necessità di un’espressione che fosse passibile di rappresentare l’interiorità degli individui: nessuna spiritualità veniva riservata ai suoni in un cosmo che riserva emozioni di ogni tipo, da quelle più brillanti a quelle più glaciali. Si tratta solo di viaggiare in esse.
Quelle librerie di suoni ottenute dalla Nasa o dall’osservatorio astronomico della National Radio hanno trovato un compimento dopo più di vent’anni in Dark Matter, tre lunghi brani frutto di una prolungata valutazione dei suoni spaziali che smentisce una credenza cinematografica che reputa lo spazio cosmico come muto: c’è del plasma interstellare che agisce, delle vibrazioni od emissioni che producono delle genesi sonore. E Lustmord, conosce benissimo queste intercettazioni, riuscendo persino a smussare quel plumbeo umore che caratterizza gran parte della sua musica: in Dark Matter chiudendo gli occhi ed inforcando una cuffia ben isolata, si possono realmente sperimentare subdolamente gli strati della materia come in una mappa che sembra racchiudere la magica combinazione di una invisibile partitura di estrazione contemporanea. Lustmord vuole costruire un nuovo tipo di terrore, quello della infinita piccolezza del nostro microcosmo in rapporto ad uno spazio che produce continue domande a cui non sappiamo dare risposta. In quello che in tanti nella musica elettronica o concreta hanno variamente rappresentato, Lustmord aggiunge un pezzo, una darwiniana presenza dell’uomo che si proietta in maniera immaginifica in un ambiente buio che è la base dell’Universo, ma dove l’energia è sovrana quantomeno per accertare la sofisticata relazione dei suoi elementi.