Estensioni musicali del nomadismo: il canto kurdish di Aynur Dogan

0
566
Source Own work Author Raimond Spekking, Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license.
L’avvicinamento europeo della nazione turca, in tutte le sue principali attività culturali e ricreative, si è verificato negli anni immediatamente a ridosso del nuovo secolo (quello in corso): quanto alla musica si è dunque dovuto aspettare questo termine temporale per poter aprire in maniera completa e definitiva la cassaforte di musica classica turca, musica tradizionale o semplicemente folk music del paese, accettando di diramare anche le forme artistiche o popolari delle sue correnti etniche interne. A questo proposito la tradizione curda in Turchia è stata riscoperta in un nuovo assetto musicale che ha portato alla scoperta di parecchie voci, tutte in simbiosi oscura con la questione politica, isole ambigue di rappresentazione del problema del nomadismo: tra queste voci, una che non si poteva sottovalutare fu quella della cantante Aynur Dogan, che raccolse un prevedibile potenziale di artisti, sensibilizzato e reso visibile al San Francisco Wordl Music Festival del 2006 allorché nella sezione Voices of Kurdistan, oltre ad Aynur vennero tenuti a battesimo molti altri musicisti di fede curda, qualcuno di stanza in California, ma del tutto sconosciuti anche per il pubblico degli appassionati di musica etnica (in un articolo apparso su SFGate si fecero i nomi di Ali Akbar Moradi, Mico Kendes, Hussein Zahawy, Kourosh Moradi, etc.). Soprattutto con il cd Keca Kurdan del 2004, che tradotto in italiano sta per “ragazza curda”, le istanze di una popolazione tra le più sfortunate della Terra sembravano poter essere convogliate in favore di un pubblico più ampio, sia di seguito orientale che occidentale. Musicalmente parlando Aynur sfoggiava un canto orgogliosamente proposto in lingua nativa che, per come era strutturato dal punto di vista emotivo, era più potente di qualsiasi spiegazione linguistica acclarata da un testo: un istinto deciso, al limite del battagliero, strumenti tradizionali speziati da alcuni accorti arrangiamenti sulla batteria resa elettronicamente, e temi apertamente votati alla rappresentazione della solitudine e insoddisfazione di un popolo, vista anche nella parte femminile: un reportage musicale per niente retorico, che fu anche censurato dalle autorità. Aynur non ha mai voluto esporsi chiaramente dal punto di vista politico (restando nell’ambito artistico) e tale scelta è stata probabilmente ponderata assieme ai suoi produttori o discografici, ai quali ad un certo punto ha dovuto devolvere l’arrangiamento essenziale della sua musica: il contratto con la Sony dopo aver raggiunto la notorietà, arrivò nel 2010 quasi a sancire la convivenza di quel canto doloroso e sprezzante con le linee artificiali dei mixer e degli universi estetizzanti della world music africana. Il relativo lavoro di transizione produsse, comunque, gemme world come Rewend o Delale, le quali sono recentemente entrate in un nuovo corso della cantante, favorito dal suo avvicinamento a ciò che viene definita mugham music o jazz mugham, una sorta di trait-de-union tra un certo tipo di cultura orientale (si fa riferimento soprattutto alla musica tradizionale dell’Azerbaijan) e il jazz nell’espressione tipica dei suoi più famosi rappresentanti (Coltrane, Evans, Jarrett, etc.); in questo filone il suo gancio è stato il pianista e musicologo Salman Gambarov, un fagocitato teorico del jazz. Gambarov vede nella musica afroamericana un potente risucchio di tutta la musica, una specie di presenza incomprimibile che riesce ad intermediare o a far confluire in essa qualsiasi attività strumentale. Questo vortice viene sviluppato in ciò che si è materializzato per l’occasione: due campioni della tradizione (Kayhan Kalhor al kamancheh e Cemil Qocgiri al tenbur) che tessono la tela dell’improvvisazione di parte orientale, con Gambarov che va a cercare tutti i giri, accordi o patterns di note dell’epopea jazzistica dei grandi pianisti, succubi a loro volta di quelli classici; e poi, naturalmente, Aynur alla vocalità.
Si tratta in questa sede di un incontro più specifico del mugham, perché ciò che viene contrapposta è anche la tradizione curda turca ed iraniana, con il jazz (il pianismo mugham di Gambarov rivela ovviamente memorie antiche della sua tradizione, quella dell’Azerbaijan); ma ciò che balza più evidente è che la dilatazione dei pezzi, indotta da un naturale rilassamento della proposta musicale, permette ad Aynur di rendere incredibilmente dinamiche le variazioni espressive della sua voce, fino all’esplosione del lamento. Ora, dunque, vi troverete ad un problema, ossia se preferire le nuove versioni di Rewend o Delale a quelle già ascoltate in precedenza nei lavori di Aynur; cos’è che va più lontano? Un arrangiamento sapiente di drum machine immerso in un profondo aroma etnico o un morbido e prolungato fluttuare in una zona che si conosce da tempo?
Articolo precedentePoche note sull’improvvisazione italiana: circoli di resistenza culturale
Articolo successivoSuoni della contemporaneità italiana: materiale e forze
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.