L’intimo pensiero di William Blake attraverso le percussioni di Hugues Dufourt

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Source Travail personnel Auteur Claude TRUONG-NGOC, licence Creative Commons Attribution - Partage dans les Mêmes Conditions 3.0 (non transposée).
Sono noti i problemi di inarmonicità delle percussioni, così come è noto che una composizione del tutto dedicata all’evoluzione e allo studio timbrico delle percussioni ha cominciato a circolare regolarmente negli ambienti solo dopo il 1950, ed ha acquistato credito e superiorità avvalendosi gradualmente della fisica e dei relativi strumenti psico-acustici, convincendo anche i più feroci dissacratori del modernismo musicale. Tra questi Andrea Frova nel suo “Armonia celeste e dodecafonia: musica e scienza attraverso i secoli” affermava che “…c’è da chiedersi perché, se i musicisti del Novecento hanno ritenuto di dover superare i criteri dell’armonia classica, non siano andati nella direzione di promuovere strumenti inarmonici, ossia non autoconsonanti, e di introdurre un adeguato tasso di inarmonicità anche negli strumenti tradizionali a corde o a canne. Non v’è dubbio che che ciò avrebbe offerto un ampio spazio di esplorazione, nella linea di quanto già decenni orsono aveva giustamente osservato John Cage: “La percussione è tutta aperture. Non solo è illimitata, è infinita”….”.
La questione ha avuto un nuovo sussulto con l’avvento del movimento dei spettralisti, che hanno esaltato la parsimoniosa inarmonicità delle percussioni, attraverso una particolareggiata messa a fuoco dei volumi acustici e del senso della movimentazione. Da una parte membrane, marimbe, cimbali e wood blocks verranno riformulate in composizioni come Erewhon di Hugues Dufourt (tre sinfonici movimenti con prodigiosi raggruppamenti che passano dalla potenza autoctona alla dislocazione misteriosa) o Tempus Ex-Machina di Gerard Grisey (la cui splendida analisi sul tempo e sulle sue dinamiche costituisce anche la prima parte di Le noire de l’étoile, incredibile pozzo di relazioni spaziali e multisensoriali); dall’altra campane, gongs, ciotole e metalli esotici furono oggetto dell’interesse dei canadesi Claude Vivier in Cinq chansons pour percussion e Francois Rose in Points d’émergence (recentemente riportata a luce dal bravissimo giovane percussionista Nicholas Papador in un cd per la Centrediscs).
L’ultima composizione di Dufourt per percussioni ha un’ambizione pari o superiore a Le Noire de l’ètoile di Grisey ed in generale si pone nettamente in avanti a tutte le composizioni per percussioni di Dufourt stesso: Burning bright è un progetto pluriennale nato in collaborazione con Les Percussions de Strasbourg, che riflette in profondità su The Tyger, la poesia di William Blake del 1794 che attraverso il felino compie una riflessione sulla natura dell’essere umano e sull’irrisolvibile problema della creazione divina che tollera il contrasto tra bene e malvagità, contrasto che può essere anche intercettato nell’intensità e nel calore provocato delle domande brucianti della poesia di Blake. Qualcosa che attizza continuamente una dimensione aggressiva della musica, utile per condurvi in quel tunnel di luce configurato nella foto-copertina di presentazione del lavoro, che in realtà rivela un dramma in cui la luce è la protagonista dei messaggi. Musicalmente lo scopo diviene allora quello di ottenere e fornire all’ascoltatore un surrogato acustico perfetto di quella luce e delle sue dinamiche, tramite una ricerca minuziosa sulla prestanza timbrica degli strumenti percussivi nella loro interezza, una bomba compositiva del suono percussivo mai sentita prima in così tante soluzioni, che si sostanzia in un lungo pezzo di 65 minuti diviso in 12 movimenti ma lasciato al suo divenire, in cui rinvenire l’ansia delle parole di Blake e i lamenti di quella tigre: timbri che si riprendono in circolo, sfregamenti sulle membrane che paiono simulazioni sonore del trasposto di cavi ascensoriali, spettacolari ed improvvise aperture acustiche che invadono l’ascoltatore, e soprattutto nessun decadimento horror o nell’onirico, ma solo una sensazione di stato ribollente, che grazie all’arsenale strumentale e alla perizia di Les Percussions de Strasbourg, inchioda da qualsiasi prospettiva (dai Suspendu ai Turbillons fino agli Espaces pulsés).
Burning bright prevede anche una scenografia arricchita da un sistema di regolazione luci super professionale affidato ad Enrico Bagnoli e spesso di un percussionista “acquatico”, che a piedi scalzi lascia l’impostazione a ferro di cavallo del gruppo, per colpire una bacinella riversa che naviga in un rettangolo d’acqua artificiale, a ridosso della strumentazione (vedi qui un estratto dell’esibizione del 27 novembre 2014 al Festival Rainy Days a Lussemburgo).
Burning bright è un colossal dell’introspezione, una città dell’inconscio percussivo che ha desiderio di trovare una ragione di scambio per i suoni, in quella risposta che Blake e noi tutti non sappiamo dare.