Qualche segnalazione su alcune pubblicazioni discografiche della New World Records nel 2016.
E’ quasi scontato affermare che il compositore Ben Johnston riprese ed approfondì le ricerche sulla microtonalità fatte da Harry Partch; ciò che invece è più arduo apprezzare è le modalità con cui lo stesso oggi può essere considerato un precursore in un settore della musica che oggi vive anche delle sue intuizioni. A differenza di compositori come La Monte Young o Riley, Johnston non cercò di dimostrare l’organicità delle combinazioni di suoni o la trance ricavabile dallo stile indiano od orientale, ma fece di tutto per provare con mezzi matematici la sussistenza di un diverso ordine naturale della composizione. C’è un ottimo libro assemblato dal compianto musicologo Bob Gilmore, dal titolo Maximum Clarity and other writings on music (edito University of Illinois Press), che raccoglie tutti i suoi saggi, un invito alla consultazione per la chiarezza degli assunti, che si prestano benissimo alla spiegazione degli ambiti compositivi di Johnston; alcune affermazioni illuminate ed una ricerca nei calcoli e nelle proporzioni, furono la base di partenza di un pensiero che tendeva a liberarsi dai vincoli consueti del pentagramma: non solo Partch e le sue teorie sugli armonici, ma anche Debussy e Schonberg (il primo visto come iniziatore di un linguaggio armonico con movimenti tra serie di overtoni, con enfasi su parziali a registro alto ed il secondo visto come un plausibile liberatore della nuova armonia creata da tecniche seriali ed atonalità), incredibilmente ispiratori della sua extended just intonation, un ingresso alla tonalità senza battute, ad un pentagramma rinnovato con note e segni che intercettano a frazioni (i ratios) i toni non previsti dall’equo temperamento e una costruzione di una struttura musicale in termina di armonia, melodia, ritmi e tempi, adibita a queste alterazioni: “….The use of extended just intonation restores the strongest perceptual aid in perceiving the network of simple mathematical ratios that makes tonality possible. The term extended indicates the embracing of the great extensions made by Schoenberg and many other twentieth-century composers of harmonic and melodic interval language. The mathematics of just intonation brings the realm of microtime into exact analogy with the way metrical rhythm has worked for centuries and makes even clearer why developments such as metrical modulation, with its numerous interrelated tempi, are so precisely germane to its use….” (dal suo saggio Maximum Clarity del ’96).
Ci sono un paio di cose che, riguardo alla microtonalità, sono passate alla storia per Johnston: le composizioni per piano microtonale e una sequela di quartetti d’archi (dal secondo in poi) che esprimono la massima configurazione delle sue idee; riguardo a questi ultimi ed in occasione dei festeggiamenti per il suo novantesimo compleanno, il Kepler Quartet ha ultimato la registrazione dei suoi quartetti, pubblicando il n. 6, 7 e 8, opere di una bellezza infinitesimale, in cui si avverte in fondo quel senso di continuità della musica che non avrebbe soddisfatto un Cage o comunque un avanguardista di rottura. Ma la musica va valutata soprattutto con riferimento ai suoi aspetti estetici ed emotivi, e quelle dolci “scordature” armoniche avvertibili nel sesto quartetto sono proiezione sonora che vi tiene costantemente in sospeso in cieli accoglienti, carichi di sorprese e misericordia; così come basterebbe ascoltare i due minuti di ingresso del settimo quartetto, il movimento scurrying, forceful, intense, per gridare ad un miracolo armonico costruito con nuovi toni: nel secondo movimento un pizzicato e alcune linee melodiche di contrasto, viaggianti nelle parti inesplorate della just intonation, sono un contraltare perfetto al terzo movimento che riprende il magnifico impasto della dolcezza non temperata. L’ottavo quartetto, poi, spinge il piede della composizione sul cosiddetto idioma neoclassico (succederà lo stesso ai due successivi rimanenti), specchiandosi con le evoluzione del trentunesimo armonico, in un clima incredibile di pace (il movimento lazy, rocking) e consapevolezza (fast-skimming light).
Johnston si chiedeva cosa sarebbe accaduto se le sue intuizioni fossero state accettate nell’epoca di Bach o Beethoven, ma aldilà delle probabili risposte che si sarebbe dato e dalle considerazioni tecniche in gioco, lo scopo della sua musica è nobilissimo ed essenziale: cercare Dio attraverso la musica ed i suoi espedienti.
Di Elliott Sharp ho tracciato un breve profilo in un mio passato articolo (prendendo spunto da una collaborazione con Centazzo). Sharp è un lungimirante compositore e chitarrista, la cui filosofia si sposa incredibilmente bene con il mondo dell’improvvisazione, per via delle sue larghe vedute e soprattutto di uno stile compositivo che segnala convergenze con quel sistema di creatività. Il suo contributo alla musica classica ci perviene anche da una monografia dal titolo Tranzience, quattro composizioni da camera che dimostrano la loro validità nel prefigurare gli stati transitori della musica, intesi come stadi di cambiamento vitali e del comportamento umano; il Jack Quartet interpreta splendidamente la sua Tranzience, una lunga evoluzione di ventotto minuti che tiene al suo interno varie soggezioni, dai percorsi in rimembranza dell’alea di Lutoslawski alle tecniche estensive e alle stranezze dei movimenti d’avanguardia di ogni ordine e grado (tra composizione downtown e leggere ombrature minimaliste); un pezzo che si affianca ottimamente ai suoi string quartets più blasonati.
Approaching the Arches of Conti (per quartetto di sax soprano affidata al New Thread Quartet) e Homage Leroy Jenkins (per piano, violino e clarinetto affidati rispettivamente a Jenny Lin, Rachel Golub e Joshua Rubin), lanciano messaggi di ammiccamento alla psicosi improvvisativa: mentre la prima composizione si snoda tra angolarità e mascheramenti al limite del phasing, la seconda contiene un’impostazione più disposta alla conversazione e a catturare lo stile senza sosta del grande violinista americano. Venus & Jupiter è un miracolo di creatività e si addentra ancor di più nelle estensioni degli strumenti: nata per ensemble composto da piano, viola, cello, trombone, flauto alto, clarinetto basso, marimba e chitarra elettroacustica (con Sharp stesso a suonarla, che strappa estemporaneamente le corde), la composizione sfrutta il clima terso ed impalpabile dei pianeti, un loro possibile manifestarsi verbalmente, che racchiude tutto il rimorso e l’insoddisfazione dei tempi, espressi con un’eccellente performance dei musicisti coinvolti; qualcosa che svegli intelligentemente ed emotivamente le orecchie: “…my work often takes a speculative and irrational/intuitive approach. It includes both the ordered and rational, the intuitive and irrational, and the acoustics of the ear….“.
Un altro aggancio ai rappresentanti del mondo musicale dell’improvvisazione arriva dal compositore Lei Liang: nella sua recentissima pubblicazione dal titolo Luminous, vengono raccolti 5 chamber pieces significativi di una parte della sua musica, tra cui emergono i venti minuti della composizione omonima affidata per una commissione al contrabbasso di Mark Dresser di concerto con il Palimpset Ensemble condotto da Steven Schick.
Dello stile e le prodezze di Liang, Percorsi Musicali tiene il conto oramai da tempo: Trans (per percussioni interattive con il pubblico), così come Verge (che qui viene trasferita dall’orchestra al quartetto d’archi del Formosa Quartet) sono dei filtri iniziali per entrare nel mondo di questo compositore di origine cinese che sposa certi idiomi della composizione contemporanea, arricchendola delle luci e delle ombre delle visioni personali e collettive del suo paese e dandogli una prestanza simulatoria necessaria per vivere pienamente l’esperienza musicale. L’impostazione è pienamente confermata in Inkscape, per piano e percussioni (Daniel Schlosberg con il Third Coast Percussion diretto da M. Lewanski), un pezzo che ha la capacità di farci immaginare immediatamente un tavolo con un disegnatore intento nelle sue imprese pittoriche; la dilatazione delle note o dei colpi percussivi, lo spazio sospensivo e foriero di avvenimenti, che fa da sfondo ai tocchi pianistici, permettono di individuare l’operato di un calligrafo in una stanza, la sua gestualità progressiva. Il parco uso sia della tastiera del piano che dei suoi interni ortodossi, nonché le cifrature di un ampio parco percussioni (wood block, tamburi, triangoli, marimbe, etc.) lavorate anche estensivamente e gestualmente, raccolgono la migliore combinazione possibile dei suoni a sostegno di quelle impronte immaginative. L’ombratura orientale non si perde mai, anche quando si tratta di rappresentare la visuale fanciullesca di una sensazione: il pezzo per pianoforte prende la sua genesi nella titolazione grazie all’affermazione del piccolo Albert, il figlio di Lei (ossia The moon is following us), scatenando analogie impressionistiche (un piano scalare che dispensa una melodia cinese accuratamente approfondita e filtrata sotto il profilo della risonanza) che potrebbero differenziarsi notevolmente da quelle vissute da Lei in altro contesto, ma che alla fine sono sensazioni universali e trasmissibili.
Luminous (vedi qui l’esibizione al Conrad Prebys Concert Hall del dipartimento di San Diego) proietta un’analisi mistificante del contrabbasso e dei suoi supporti: il compositore al riguardo si addentra nella “voce” interna dello strumento, con sezioni che “….starting with bowing on one string that produces multiphonics, double-stop bowing, and pizzicati. It concludes with the threading technique (attaching the bow from beneath the string), which allows the performer to bow multiple strings simultaneously….”; lo scopo della composizione è quello di mostrare i denti di un diverso meccanismo di trasmissione delle immagini, un’iperbolare struttura che possa scorgere luce in mezzo a tante nuvole, dove il percorso scandito da Dresser con manovre repentine o raschianti, sia dotato dell’aiuto di un ensemble che opera in simbiosi multifonica e spettrale, sostenendo dinamicamente le strutture suonate da Dresser. C’è poca letteratura nella classica contemporanea che può vantarsi di sfoggiare queste qualità, dove è necessaria la compartecipazione tra compositore ed esecutore e dove si deve essere in grado di saper donare altera dignità ad una voce strumentale, corredandola (come in questo caso) di una patina caratteriale pastosa e leggiadra, al pari di vernici sonore o puntellamenti. La composizione di Liang intercetta, perciò, le acquisizioni tecniche recenti sul contrabbasso, in merito alla multifonia e alle preparazioni più ardue sullo strumento che verranno.
Per chiudere vi segnalo brevemente anche i Three pieces for two pianos del compositore Larry Polansky, donati all’interpretazione di Joseph Kubera e Marilyn Nonken, quattro splendidi movimenti che distraggono dalle consuetudini del compositore americano addentrato solitamente nell’analisi delle strutture canoniche e le Harmonic Constellations del compositore Michael Harrison, suonata dalla violinista Mari Kimura, ancora armonici che però stavolta vengono sviluppati nella cornice di uno scambio tra suoni del violino e toni sinusoidali.