Kurt Schwitters fu un caso particolare della corrente dadaista tedesca. Residente ad Hannover, Schwitters arrivò al dadaismo completo dopo una lungo accostamento all’arte del collage, di cui diventò precursore molto prima che iniziasse un movimento organizzato con quelle prerogative. Da una parte le sue opere accolgono l’astratto e una concezione specifica dell’arte di Kandinsky, ossia una mappatura quasi “urbana” dell’espressione pittorica, dall’altra il suo dadaismo estremo ebbe spazio nell’installazione della Cattedrale delle Miserie erotiche (in verità più una sorta di cappella che una cattedrale), luogo in cui Schwitters, riciclando materiali ed oggetti degli amici, evidenziava la volontà di un lavoro permanente di aggiornamento sulle strutture e gli spazi. Se ne ricavò un modello, il merz, solo a lui attribuibile, ed una prospettiva pluri-dimensionale scatenata dalla visione degli ambienti.
Le forme libere, capovolte e derisorie dell’arte, sono state un punto di riferimento anche per la musica improvvisata: un avvenimento concertistico che sta diventando indispensabile è il Festival che Leo Feigin organizza ogni anno tra Mosca e Berlino, dove musicisti geograficamente vicini e non del produttore russo, si esibiscono per celebrare quella che è allo stato attuale una manifestazione votata ad un edulcorato senso dell’improvvisazione. Tra i fidati di Leo c’è il quartetto dei VocColours (Iouri Grankin, Norbert Zajac, Brigitte Kupper e Gala Hummel), che in queste pagine ho già avuto modo di lodare e di cui ho anche evidenziato il legame “russo”: i quattro vocalisti mi hanno donato una loro esibizione del 2015, fatta durante la 4° edizione del festival della Leo Records, ma pubblicata dalla Artbeat Club Edition, l’etichetta di Alexei Kozlov, un jazzista stimatissimo in patria, in sella con il progetto di sostenere il livello culturale della musica russa.
“Russian affair” è stato registrato con la presenza strumentale di Alexey Kruglov, Roman Stolyar e Oleg Yudanov, che hanno fatto da base di supporto alle tipiche evoluzioni vocali del quartetto tedesco. Concentrati sui 25 minuti di Tender Noise, i vari approcci vocali restituiscono una pluralità di intenti artistici: uno stadio dadaista ed un’improvvisazione stratificata, che raccoglie vari elementi e dinamiche: c’è un pò di Jaap Blonk (un acerrimo estimatore di Schwitters), molti cenni trasfigurati di canto jazz, minacciose armonie accompagnate da piano e percussioni in ritmicità puntellata e un sax remissivo come un salice piangente alla Dexter Gordon; poi come animali da cortile che si ribellano, i quattro combinano una pantomima basata su emissioni gutturali ed urla che sembrano accompagnare una protesta di piazza, con il sax di Kruglov che stavolta diventa violentissimo; nella parte finale, si avverte la netta sensazione di una sincronia invidiabile, sebbene la stranezza è ciò che si coltiva, grazie a bisbigli, essenze da dramma operistico, fonemi o declamazioni: è un vorticoso collage free che vi cattura.
Nel proseguio, l’ilarità viene raccolta nella storia di The tale of little Zwrgnhrz, mentre in Happy End si imbastiscono ulteriori pantomime di musica e vocalità, che sembrano legarsi a quel mondo di canti e cantanti che dominava il ragionamento di David Moss in occasione della presentazione di uno dei rarissimi summit di all-stars della vocalità improvvisativa (mi riferisco a Five Man singing del 2003 che vedeva la combinazione Jaap Blonk, Phil Minton, Paul Dutton, Koichi Makigami e lo stesso Moss), per dimostrare la capacità interattiva delle canzoni da strada “...this is how singing really works: you find yourself humming the song of a stranger who passes you in the warm evening air and you take the melody in your arms and run away!….”
Nel proseguio, l’ilarità viene raccolta nella storia di The tale of little Zwrgnhrz, mentre in Happy End si imbastiscono ulteriori pantomime di musica e vocalità, che sembrano legarsi a quel mondo di canti e cantanti che dominava il ragionamento di David Moss in occasione della presentazione di uno dei rarissimi summit di all-stars della vocalità improvvisativa (mi riferisco a Five Man singing del 2003 che vedeva la combinazione Jaap Blonk, Phil Minton, Paul Dutton, Koichi Makigami e lo stesso Moss), per dimostrare la capacità interattiva delle canzoni da strada “...this is how singing really works: you find yourself humming the song of a stranger who passes you in the warm evening air and you take the melody in your arms and run away!….”
L’outtakes di questo cd è The beginning, un’astrusità che vede il quartetto assieme al pianista Andrei Razin, in una registrazione estemporanea al Loft di Colonia: in questa sede si pesca nel cilindro di McFerrin, nell’impianto classico alla Mozart ed in tante modulazioni dadaiste del canto, che rivelano la usuale professionalità dei partecipanti e spingono per l’ulteriore approfondimento artistico (una delle qualità più preziose del quartetto); si descrivono mappe libere dell’improvvisazione, al pari di quelle immaginazioni “urbane” che si trovano anche nell’ambito del dipinto di Ramani Narayan, a dominare la cover del lavoro.