Ci sono alcune inesattezze quando ci si indirizza sulla musica rock dei R.E.M.: la maggiore sta nella discreta considerazione di un gruppo calato in una realtà rock sixties, imparentato con copie ben ricostruite del beat di quegli anni; riguardo al gruppo di Michael Stipe la forma più richiamata è sembrata essere quella di una band inglese che in Italia molti hanno conosciuto per essere un veicolo pubblicitario televisivo: menzionare solo i Troggs o qualche altro reperto storico dei sessanta, non fa molta giustizia ad una band, che viveva un contesto storico particolare e con stimoli formativi più ampi. Il sottobosco americano di quegli anni è florido e si concentra in città numericamente ed economicamente meno importanti, quelle delle province americane che iniziano un riscatto incredibile e imprevedibile del gusto. Più della riscoperta dell'”acido” o del “selvaggio” (entrambi vissuti solo artisticamente dalle nuove generazioni), il 1980 segna l’epoca della rivalutazione estrema del punk: ad Athens (contea della Georgia) e a Minneapolis (città del Minnesota) si svilupperanno alcuni dei più sostenibili revival del genere. Di riflesso alla nascita di gruppi come gli Husker Du, i Replacements, Black Flag e tantissime altre formazioni orbitanti intorno ad una immacolata etichetta discografica indipendente del Texas (la SST Records di Greg Ginn), i R.E.M. sfruttano una condivisione di intenti che si avverte palpabile in quegli anni. “…every town had one or two bands like us. None of us were really punk rockers, but we were inspired by punk to do something and ended up using the language of the music we grew up with...” afferma Peter Buck, chitarrista della band nel libro Trouble Boys, the true story of the Replacemnts (Bob Mehr, Dacapo Press 2016).
La dichiarazione di casualità non deve far rabbrividire, per la paura di celare un vuoto concettuale all’interno del contenitore musicale: al pari dei primi progenitori del punk o di quel punk politico stile inglese della metà dei settanta, questo nuovo rock alternativo recupera l’efficacia e la forza dell’espressione, ma non perde in obiettivi. I R.E.M., incarnando una via più mediata del punk, diventarono i rappresentanti di una nuova composizione delle classi sociali americane, più attenta attraverso la musica, a patrocinare problemi sociali, culturali ed ambientali. La figura più intellettualizzata di Stipe raccolse le istanze di una generazione che già si trovava in un bel pasticcio esistenziale, e quando arriva Murmur, è quasi naturalmente disponibile ad accogliere il nuovo rimpasto di jingle-jangle, beat e punk; la stessa vocalità di Stipe (a tratti insufficiente ma incredibilmente caratterizzata) è un tuffo nella desolazione e nell’energica contestazione, che tuttavia dà anche sollievo, evidenti segni di speranza. Con Radio Free Europe, Talking about the passion, Catapult si ritorna all’importanza del refrain e della semplicità armonica, con Stipe che inventa anche una riconoscibile metrica esecutiva nei testi, ma la maturità piena il gruppo di Athens la raggiunse qualche anno più tardo, con la raccolta di canzoni di Lifes Rich Pageant, un vero baluardo del rock degli anni ottanta; con una produzione smagliante e roots fatta da Don Gehman, i R.E.M. sono in grado di raggiungere i loro temi con un’efficacia spaventosa, dalle oscenità di Cuyahoga River (un bacino alle prese con un esplosivo stato di inquinamento) alle angosce di These days, dalla veemente protesta di Begin the begin e The flowers of Guatemala alle minacce delle piogge acide di Fall on me. La prima parte dell’album è praticamente perfetta: arpeggi e riffs di chitarra elettrica super indovinati, groove moderatamente sporco della musica ma al punto giusto, una soavità delle estensioni canore del leader e un grado di romanticismo per nulla banale, con melodie libere e cantabili che a distanza di 31 anni riescono ancora ad affascinare. Con una godibilità ai massimi livelli, Lifes Rich Pageant entra di diritto nella cerchia degli albums più belli del rock e richiama persino un ascendente italiano in Underneath the bunker (Morricone).
I successivi Document e Green non fanno altro che confermare lo stato di grazia, sebbene in quest’ultimo il folk-rock e una certa dimensione acustica cominciano a prendere vigore. Si deve aspettare Automatic for the people per capire che il gruppo ha bisogno di addomesticare la durezza di una parte dei suoni e conseguentemente provare un’esperienza “classica”: una trasformazione che vuole scacciare i timori di una sterilizzazione melodica vissuta omogeneamente dal precedente Out of time (che però li fece diventare campioni di incasso); l’arrangiamento di Everybody Hurts è eccellente per un pezzo di musica rock, così come l’utilizzo di oboe, mandolini e fisarmonica rende Automatic for the people un lussuoso rustico americano.
Finito l’ardore romantico il gruppo ritenne opportuno offrire una faccia abbordabile e resistente per un’attività live e ciò gli poteva essere garantito solo ritornando alla musica presentata agli esordi: il rinnovato vigore che avvolge le ottime riflessioni di Monster e il clima da scrittura dopo-palco delle canzoni di New Adventures in Hi-fi (un validissimo campionario di canzoni con alcune intuizioni nella parte ritmica, lasciate purtroppo al caso nelle isolate How the west was won and where it got us e Undertow), dura poco. L’eclettica scivolata nell’elettronica leggera cominciata con Up decreterà un periodo prolungato di scelte sbagliate ed abbassamento della qualità da cui il gruppo non si riprenderà più fino allo scioglimento. Ciò che resta è quello di aver coniato sicuramente un proprio marchio musicale, uno stile tipo che può essere riferito solo a loro, lavorato per piacere sia ai punks che agli ascoltatori delle stazioni FM radio americane, ma nel loro caso, l’aver mediato agiatezze e scantinati è un merito che non può essere considerato un tradimento della purezza e della genuinità.