Percepire la musica alla stregua di un’arte, essere in grado di rendersi conto della differenza di due prodotti musicali, tendere alla comprensione della bellezza emotiva della musica, sia nella semplicità che nella sua complessità, dovrebbe essere un’ambizione costante per l’ascoltatore di musica. In questa utopica visione non è raro scorgere una sorta di altalena cartesiana dove l’equilibrio sembra essere affidato a musica che non può essere classificata ai suoi estremi (da una parte l’inconsistenza, dall’altra una settaria miniera di valore). Clementi, nelle sue lezioni, spesso però diceva che ci sono cose tecnicamente altissime ma che non funzionano e viceversa cose semplicissime che verranno addirittura ricordate nel tempo, e questo è il motivo per cui non possiamo mai abbandonare gli ascolti di un certo tipo. Questa premessa è utile per inquadrare movimenti musicali controversi come la fusion music: nel suo libro per l’Arcana Ed., Vincenzo Martorella ha sottolineato come questo genere musicale sia stato da sempre trattato male, musica inqualificabile con mille derive estetiche, ma se si abbraccia una nuova prospettiva, più rigorosa e tendente all’emersione di un panorama espressivo, non c’è dubbio che gente come Zawinul, Weather Report, Pastorius, Metheny, Corea, Brecker e tanti altri, abbiano un posto significativo nella storia della musica, costruito su elementi solidissimi. Zawinul, poi, trasbordando nel tema etnico è riuscito persino aggregante (ricordo in un suo concerto che ad un certo punto, senza che me ne potessi accorgere, mi ritrovai davanti un amorevole trenino danzante guidato dall’artista stesso, che scorreva negli spazi e nei corridoi che l’ambiente dell’esibizione offriva). Accodandoci a quanto detto da Martorella “….la chiave di accesso alla fusion è senza dubbio quella di interscambio dei codici, ove con tale nome è da intendersi la capacità del musicista di attingere a diversi giacimenti stilistici, adottando di volta in volta soluzioni originali, oltre che dal punto di vista linguistico, da quello progettuale….” (tratto da Storia della fusion: dal jazz alla New Age, Castelvecchi 1998).
Di tutta questa rivalutazione, ciò che viene messo in crisi, è l’aspetto innovativo dei nuovi artisti; dal momento che il flusso di musicisti e prodotti di fusion music è ancora alto, ci si chiede se si possano trovare ancora nuovi agganci all’autenticità e alla qualità dei musicisti. Questi pensieri potrebbero normalmente scaturire dopo l’ascolto di due nuovi artisti jazz per la britannica Edition R., anche se i due musicisti non sono inglesi, bensì sono un finlandese e un danese, che non portano esperienze del proprio paese, ma semmai offrono esempi di internazionalizzazione.
Olli Hirvonen è un chitarrista che nel 2016 ha vinto la competizione del Montreux Jazz dedicato alla chitarra elettrica. e oggi si trova a New York per affilare le sue conoscenze jazz. Ha imbastito un quartetto di validissimi musicisti di jazz, mettendo in evidenza il suo grande dono: la velocità. Il cd relativo, dal titolo “New Helsinki”, parte con una notevole Arps (vedi qui), che realizza il compito di trasportare la mia memoria in un’area di attrazione della fusion che ho molto amato nel passato, avvicinando il Metheny di Lone Jack; Hirvonen è differente da Metheny, ha una formazione classica che non riesce a cogliere le lancinanti prese di posizione dell’artista americano, ma se vale il detto che il buongiorno si vede all’alba, allora la capacità di Hirvonen di muoversi su tutta la tastiera in un certo modo e di centrare così giovane obiettivi tecnici così importanti, non è certo una prerogativa di tutti. Si apre una prospettiva emotiva che gioca la sua diversità e la sua attitudine a stendere umori.
Morten Schantz è invece un tastierista jazz che viene ricordato per essere stato parte del progetto tutto nordico di JazzKamikaze, che ha ricevuto consensi generalizzati ed il premio Young Nordic Jazz Comets. Per l’esordio alla Edition R., però, Schantz riunisce un trio rinomato con Marius Neset e Anton Eger e “Godspeed” è un tuffo proporzionato in quella visione musicale tanto cara ai musicisti di fusione degli anni settanta/ottanta; dico proporzionato perché compone con spunti riferibili a tipologie diverse di espressione, pescando, senza nessun approfondimento, nel Future Shock di Hancock, nei palinsesti dei Weather Report e Michael Brecker e nella pastoralità del jazz di John Surman (avvertire la tensione classica di Cathedral per credere). Ne deriva un prodotto scevro da qualsiasi sperimentalismo, con tanti echi ma, per dirla alla Clementi, che funziona nell’economia dei suoni. Prendi la title-track (qui): c’è groove, mordente, una schiera imbarazzante di tastiere di ogni tipo (Morten suona Fender Rhodes, Moog e Korg di taglia differente, upright piano, etc.) e l’emersione delle notevoli capacità di Neset, purtroppo troppo spesso legate ad operazioni plastificate, a ridosso del mainstream.