Il periodo adulto delle sperimentazioni al canto nel rock venne raggiunto con Tim Buckley all’epoca del suo Starsailor. Era il 1970 e nessuno fino ad allora aveva osato tanto nel mettere alla prova i limiti della voce; per essa, invero, sembrava più importante trovare un’originale esposizione, una propria espressione. La voce di Buckley aveva avuto modo di fornire eccellenti dimostrazioni della propria esposizione, grazie ad un timbro unico e separabile da quello del resto dei cantanti; si trattava di una tremenda malleabilità al registro e di una serie di modulazioni vocali che vennero facilmente abbinate alle inventive di Starsailor. Coordinando la parte poetica con Larry Beckett, Buckley introdusse nuovi elementi alla sua musica (un magnifico e malinconico folk riempito di strati blues e free jazz) soprattutto dal lato del canto: ventate di atonalità nelle melodie, guaiti ed isterismi, personali espansioni sui registri alti con alcune vere e proprie congestioni degne di usanze antiche al cospetto di entità spirituali (vedi in Monterey o Jungle Fire), congiunzioni della voce filtrate in mezzo a plurimi effetti di elettronica (Stairsailor sembra riservare un posto comune agli esperimenti di Berio con i nastri e alle convulsioni di molta musica psichedelica dei sessanta), persino una propria coralità imbastita in Healing Festival. Sebbene Buckley si ritenesse un figlio del blues, la volontà di approfondire il canto lo costrinse a dover guardare gli avvenimenti della musica classica moderna in materia: Lee Underwood, il suo fidato chitarrista, rivelò in un’intervista che in quel tempo Tim era stufo di confezionare un prodotto commerciale così come gli veniva richiesto dalla sua label ed era proteso all’ascolto di un certo tipo di avanguardia classica e jazz; da una parte Cecil Taylor, Coltrane e Dolphy e dall’altra Cathy Berberian, Messiaen e Penderecki. Riguardo all’influenza di questi ultimi non si stabiliva solo un’associazione tragica di idee, piuttosto era l’uso del canto che lo affascinava e in Starsailor basterebbe ascoltare la Moulin Rouge per trovare un legame efficace con alcune Folk Songs francesi di Berio, donate al canto della Berberian.
La sperimentazione sul canto fece un incredibile salto qualche anno più tardi, quando arrivò sulla scena Demetrio Stratos: allievo di Xenakis (assieme a Diamanda Galas e al compositore poi trasferitosi in Francia, Stratos avrebbe costituito un trio di eccellente provenienza greca cointeressato al canto), e superlodato da Cage, il cantante italiano lasciò gli Area per affrontare le sollecitazioni che provenivano da alcune parti del mondo in materia di canto armonico (tra tutte le più interessanti erano quelle di David Hykes); Stratos le mise in bella mostra in alcuni albums fondamentali (Metradora e Cantare la voce, fra tutti) e come in un test scientifico snocciolò tutti i progressi che era riuscito a scoprire. Diplofonie, triplofonie, flautofonie, improvvisazioni e criptomelodie infantili, scansioni vocali con utilizzo di ritardi e di altra elettronica (Berio again) nonché modelli canori di applicazione nel teatro (il riferimento era a Cage e Merce Cunningham), trovarono l’equivalente di un record mondiale dell’atletica della corsa veloce, di quelli che durano decenni.
Naturalmente imparagonabili, sia Buckley che Stratos hanno lasciato grandi eredità al canto e non sto qui, naturalmente, a fare la lista di coloro che hanno fornito il loro contributo aggiuntivo fino ad oggi. Ciò che mi interessa rimarcare è come i loro insegnamenti abbiano aperto delle porte di creatività che ognuno ha potuto sfruttare secondo la propria direzione artistica. Rimanendo in Italia e nel campo rock, un buon esempio che ho avuto modo di ascoltare, riguarda il progetto di canto di Simone Basso (sotto lo pseudonimo di Enomisossab) nel suo ultimo cd dal titolo KikeΩn, una prova d’approdo ad una forma plurima, con molti idiomi certamente, ma con almeno un paio di schemi che dovrebbero assolutamente essere seguiti da tutti i musicisti che cercano nuove configurazioni:
1) da una parte c’è un’attenzione affinché la sperimentazione non turbi l’estetica o quantomeno inquini la gradevolezza della musica: sia nelle diplofonie alla Stratos che nelle turbative drama di cantanti post-Buckley come Scott Walker o Antony Hegarty, Basso è capace di trovare un compromesso e non perdere peso allo stesso tempo.
2) dall’altra il richiamo a sorgenti musicali, teatrali o letterarie, è driver indispensabile per un valido ed adeguato sostentamento della forma-canzone. Con intento pedagogico, Basso fa un taglia e cuci di passi di La presenza di Orfeo di Alda Merini in Amico dell’assenza o dell’Epepe di Ferenc Karinthy, di fronte a samples della Gubaidulina di Musical Toys in Welt am draht, del King Tide di Anders Hillborg nella title track, del Die Glocken di Heino Heller in Bastet, nonché del Journey in Satchidananda di Alice Coltrane in Epepe. Se un brano come Romeo Venturelli lascia molta indifferenza, la danza di Elisa Spagone, incapsulata nel video a supporto di Bastet (vedi qui), richiama positivamente quel fascino che Stratos aveva subito nel partecipare agli Events di Merce Cunningham: volteggi, splicing e un senso metaforico rischiarano quella presunta oscurità che si vuole attribuire a questa modalità di progetti musicali. E’ solo il record mondiale che è difficile da battere.