Uno dei problemi più scottanti delle società odierne è quello dell’identità. Comune alle arti e al pensiero, anche la musica rivendica una nozione di identità soddisfacente e un suo contenuto adeguato; quello che è successo nel novecento va nuovamente riattualizzato per rendere consonanza al secolo che stiamo percorrendo. Se vista come comunanza di usanze, tradizioni e pratiche religiose, non c’è dubbio che l’identità musicale abbia perso peso e rilevanza con l’instaurazione della pratica contemporanea (un termine che qui uso in senso restrittivo, per riferirmi a tecniche e principi di un consolidato orientamento musicale), allorché i principali attori di essa furono attratti dalle novità che si aprivano nel campo della ricerca posta sui timbri e dell’elettroacustica. I tiepidi appoggi dei compositori profusi sulla serialità lasciarono il posto alle subdole operazioni di decostruzione totale, che non erano in grado di costruire un’identità. Si trattava di una continuazione di quella rivoluzione sui sistemi musicali, attuata riducendo a cenere l’armonia o altri elementi e lavorando ad un concetto senza legami e con validità erga omnes. Non è che questi compositori fossero insensibili al problema, era piuttosto la visione pessimistica sull’argomento che precedeva quella musicale: autori come Lachenmann parlavano liberamente di fallimento della musica contemporanea, portandosi dietro implicitamente il fallimento anche delle politiche di integrazione dei flussi migratori e l’atomizzazione delle personalità individuali. Ad un certo punto, così come successe in tutte le altre arti, anche nella musica l’identità venne vista come un fardello divino, sopratutto in quei paesi che avevano subito una forte compressione della libertà o addirittura bibliche deportazioni, come nella cultura ebraica. Proprio in quest’ultima è evidente il salto maturato nelle nuove generazioni, una coscienza diversa, tesa a sciogliere il peso di un’eredità ingombrante in nuova linfa creativa e sopratutto linfa liberatoria.
Un esempio arriva dalla Contemporary Jewish Music del compositore Stefan Weglowski (1985), polacco di ascendenza ebraica, che costruisce un modello senza precedenti per un’assimilazione coerente ed aggiornabile tra cultura occidentale ed ebraica: alzando il tiro su livello di composizione ed elettronica, Weglowski crea un ponte tra uno stile contemporaneo e una riformata visione Yiddish. Da un parte coglie e sviluppa quell’inflessione musicale del Nono del Canto sospeso, dei suoi echi psicologicamente determinanti, dall’altra, con una sensibilità forte e sacrilega, innesta nel tessuto compositivo pezzi controversi del libro del Qoelet, una preghiera dell’Esodo e tanti riferimenti della tradizione immediatamente rinvenibili tramite le sue forme tipiche: agganci alla religione (peraltro presentata con un’evidente estetica esorcizzante), alle tecniche musicali e agli strumenti tipici di quell’espressione (le congestioni sonore creata da un clarinetto o da un violino ad esempio).
Il rimescolamento viene in realtà da un pool di polacchi invischiati nella materia ebraica, di cui per qualcuno conosciamo anche la valenza in settori della musica affini: il clarinetto di David Krakauer (gran suonatore di klezmer e classica, con tante produzioni in casa Zorn) o il sax di Mikolaj Trzaska (un altro propulsore della musica tradizionale ebraica con collaborazioni importanti fatte nel campo dell’improvvisazione con Brotzmann, Lester Bowie, Stanko, McPhee, etc.) si incontrano con le giovani promesse Adam Kosmieja al piano e Maciej Jaron al violino, nonché con quattro vocalità del tutto trasformate dalla programmazione elettronica, che diventa in definitiva il punto estremo della sperimentazione e del pensiero di Weglowski. Se Anthem e Appendix sono due eccellenti composizioni in cui a turno Krakauer, Trzaska e Jaron, grazie a tecniche microtonali e a sovraesposizione spettrale dei suoni, incarnano già un’evoluzione del sentimento ebraico, Kohelet e Modeh ani sembrano voler spezzare qualsiasi legame, intrise di una voluta sostanza dissacratoria che li pervade, tutta lavorata sulla manipolazione digitale di voci e strumenti.