Mal Waldron parte prima: i racconti di Gianni Lenoci

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Mal Waldron, Bajones Jazz Club, San Francisco 6/8/87, Source Transferred from en.wikipedia to Commons. Author Brianmcmillen at English Wikipedia, Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license. No change was made

 

In questi giorni tutte le riviste musicali e una larga platea di musicisti e addetti del settore stanno celebrando il centenario di Thelonious Monk. Un evento ineccepibile e necessario. Io, però, qui vi invito a riscoprire la musica di un suo eccellente contemporaneo, il pianista Mal Waldron. Ripercorrere la musica di Waldron non è un pleonastico esercizio di memoria che affronta un periodo non più riproponibile del jazz; se consideriamo il quadro odierno dei pianisti contemporanei, possiamo notare come molti di loro hanno un debito verso di lui non immediatamente percepibile (es. non ci sarebbero oggi pianisti come Matthew Shipp se non ci fosse stato Waldron!). Questo atto di riconoscenza verso un musicista carismatico e pronto a cavalcare i confini non visibili delle sonorità jazzistiche, combatte non solo contro l’oblio che molta stampa specializzata gli ha ingiustamente riservato (molti testi del jazz gli riservano uno spazio minimale), ma vuole dimostrare come la sua figura può vivere ed essere attualissima nella formazione musicale odierna.
Non sono molti gli studiosi dell’americano: per quanto io conosca, in Italia l’unico cultore impegnato alla divulgazione di Waldron è il pianista monopolitano Gianni Lenoci, che ne ha assorbito anche lo stile e la ricerca. Lenoci ha gentilmente accettato di descrivere la sua esperienza diretta con Waldron, sottoponendomi un suo intervento strutturato a mò di intervista-saggio, un pezzo che sarà inserito in un libro (non ancora pubblicato) di Frank Steiger, giornalista e scrittore svizzero.
Chi legge Percorsi Musicali conoscerà bene le qualità artistiche di Lenoci, poiché ho scritto molto su di lui in queste pagine: professore di improvvisazione e composizione al Conservatorio di Monopoli, Gianni è un compositore e didatta con un curriculum impressionante di premi, progetti e collaborazioni importanti (vedi qui). E’ per me un onore ospitare il suo racconto e renderlo disponibile per tutti i lettori. Le sue parole sono funzionali ad una conoscenza tecnica ed estetica dell’artista, in cui rinvenire i principali drivers della rilevanza del suo linguaggio.
Per completare questa rivisitazione di Waldron, dopo le parole di Lenoci, troverete un mio pezzo riepilogativo sul pianista americano a carattere informativo e critico, dove è possibile fissare le tappe fondamentali della sua carriera e pescare un pò di ascolti straordinari.

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Gianni Lenoci racconta Mal Waldron

 

di Frank Steiger (Autore di un libro su Mal Waldron di prossima pubblicazione)

 

Il tuo primo contatto con la musica di Mal Waldron?

 

È arrivato ascoltando il triplo LP “Eric Dolphy Live at Five spot” negli anni ’80.
A quel tempo ero fondamentalmente un fanatico di Bill Evans.
Tuttavia guardavo sempre intorno per esplorare nuove modalità d’approccio all’improvvisazione jazz.
Soprattutto per quanto riguarda il linguaggio jazz visto nella sua interezza. Mi riferisco soprattutto a concetti come: libertà, senso del blues, essenza, radici, contrasto tra tradizione e avanguardia e così via ………
Ricordo vividamente lo shock che ebbi ascoltando il solo di Mal nella sua composizione originale “Fire Waltz” e nella composizione di Dolphy, “The Prophet”.
Nessuno suonava in quel modo. Tutti i musicisti che conoscevo a quel tempo, (Thelonious Monk escluso), erano focalizzati sul fraseggio lineare e dimenticavano il “suonare dall’interno”.
A quel tempo era in voga la “fusion “, con il suo approccio superficiale ed edonistico e il jazz in senso stretto era in una fase di revival a seguito delle teorie di Wynton Marsalis e dei suoi seguaci.
La mia impressione era che Mal suonasse “dal profondo” del brano, piuttosto che suonare “sul brano” o “attorno al brano” e / o semplicemente incollando formule manieristiche.
Trasformava / schiudeva il materiale in spirito, come un vero e proprio alchimista jazz.
L’uso dei motivi nell’improvvisazione di Waldron mi ricordava Beethoven con il suo modo di impostare una composizione organicamente completa attraverso la manipolazione / combinazione / permutazione di piccoli frammenti, distesi in tutte le opzioni del materiale dato.

 

I tuoi ricordi nel vederlo sul palco?

 

L’ho visto più o meno una dozzina di volte dai primi anni ’90 in Italia, con diverse formazioni.
Nel 1995 sono stato a Milano in studio durante la sessione di registrazione del Cd “Black spirits are here again” in duo con il sassofonista Roberto Ottaviano.
Poi sono stato con lui nei 5 giorni successivi, accompagnandolo con la mia auto in Lombardia, dove aveva alcuni concerti in trio con il bassista Pietro Leveratto e il batterista Alfred Kramer.
Sono rimasto impressionato dalla sua abilità nel concentrarsi in un breve lasso di tempo e di tenere costantemente la sua attenzione sul materiale che stava suonando.
Era in grado di passare in un battito d’ali da un racconto scherzoso nel backstage ad un’immersione sul palco nelle profondità del suo subconscio. Raccoglieva in un attimo frammenti di memoria e cominciava il suo processo di esplorazione attraverso l’improvvisazione.
Ricordo che, durante la sessione di registrazione con Ottaviano, Waldron testò il primo accordo della composizione di Eubie Blake “Memories of you” per quasi un’ora; cercando diversi voicing e tipi di attacco alla tastiera , prima di andare avanti al successivo accordo della canzone.
Fu in cerca di un “suono” per tutto il tempo.
Poi organizzò un motivo di 3-4 note e lo elaborò su tutto il brano.
Ci sono volute circa 2 ore per impostare il primo brano. Dopo ciò, tutto il resto della sessione fu più o meno “buona la prima”!
Un aneddoto: Mal suonò un basso sbagliato nel brano di Dizzy Gillespie “A Night in Tunisia”.
Chiese al fonico di editare la nota singola e così sostituì l’errore con il basso giusto.
Molto pragmatico e poetico allo stesso tempo.

 

I tuoi studi con lui?

 

Dopo l’ascolto scioccante avuto nei primi anni ’80, mi sono immerso completamente nello studio della musica di Mal.
Collezionavo registrazioni e bootlegs, trascrivendo i temi (non trascrivevo gli assoli, ma li memorizzavo ad orecchio), esercitandomi sui suoi brani e inventando esercizi (che uso ancora) derivati dalle sue composizioni.
Fire Waltz è stato il primo pezzo che ho imparato. È ancora nel mio repertorio.
Devo dire che allo stesso tempo mi innamorai anche della musica e della concezione di Steve Lacy.
Così sono stato completamente coinvolto dal mondo di Lacy / Waldron, che ho spremuto in ogni aspetto il loro modus operandi.
Stavo costruendo il mio vocabolario vivendo alla stessa loro maniera l’intero processo creativo.
Nel 1992 lessi su una rivista jazz italiana che Mal Waldron avrebbe insegnato in Italia, a Loano in Liguria, per un corso di due settimane.
Mi iscrissi subito e andai a Loano e per una fortunata (per me) casualità, fui l’unico pianista iscritto al suo corso!
Mi ricordo che dissi ad alcuni dei miei colleghi: “ragazzi, mi iscrivo ad un corso di Mal Waldron. Venite con me? “E la risposta generale fu:” Mal, chi? “
No comment.
Iniziai le lezioni con Mal e ricordo in maniera molto vivida la prima, perché fu una delle lezioni più importanti che ebbi nella mia vita.
Mi chiese di suonare qualche cosa e io scelsi lo standard “The days of wine and roses”.
Conoscevo bene il brano perché era nel repertorio di Massimo Urbani con cui collaboravo in quegli anni.
Avendo una certa voglia di fare colpo su Mal, suonai la song con una sorta di approccio be-bop leggero / decorativo a tempo medio-veloce, mostrandogli tutte le conoscenze armoniche che possedevo, e suonando con un certo ego.
Non appena terminai la mia interpretazione lui mi guardò e scuotendo la testa mi disse: “No”, in un modo molto gentile ma risoluto e con un sorriso. Ma il suo commento fu: “No” ……………
Mi chiese se io conoscessi il testo della canzone (ovviamente non lo conoscevo) e il film da cui era tratta (stessa risposta da parte mia).
Lui si sedette al pianoforte e interpretò la più lenta ed intensa esecuzione di questa canzone che mai avessi sentito fino allora.
Molto lenta, molto profonda. Con un suono di pianoforte bellissimo e rotondo.
Entrò nei meandri della progressione armonica, esplorandone le implicazioni e facendole sbocciare in motivi cellulari che attraversarono tutta la forma-canzone.
Fu ipnotico e affascinante.
Era un caldo giorno di luglio di un’estate italiana, ma nel momento preciso in cui Mal cominciò a suonare, le finestre sbatterono e il clima si tramutò drammaticamente in una giornata di pioggia con vento, nuvole grigie ed una certa atmosfera corrusca!
Ci fu una sorta di magia che fluiva nell’aria. Parlo seriamente. Avvertì nuove e particolari vibrazioni in quella stanza.
Sperimentai una sorta di “esposizione” al magico.
Quando Mal finì mi guardò e disse: “Non significa nulla se non c’è un po’ di tristesse” (usò tristesse, in francese invece di tristezza).
Questa fu una delle lezioni musicali più importanti della mia vita.
Indimenticabile.
Nessuno dei due disse più niente.
Fine del primo giorno.
Elaborai nottetempo il tutto e già dal secondo giorno il mio modo di suonare il pianoforte cambiò definitivamente. (Ma ci sto ancora lavorando, ovviamente………….)
Da quel momento le lezioni furono più “convenzionali” per così dire.
Egli mi mostrò alcuni dei suoi movimenti nel contrappunto della mano sinistra, o scrisse sulla lavagna (per inciso: le lezioni si svolgevano in un’aula di una scuola elementare e faceva un certo effetto vedere Mal Waldron scrivere alla lavagna gli esempi a mò di maestro elementare) la sua riarmonizzazione del brano di Richard Rodgers “Spring is here”e mi insegnò alcuni dei suoi pezzi come:” Spaces “,” Soul Eyes “,” Left Alone ” e“The Seagulls of Kristiansund “.
Ci inoltrammo anche nella libera improvvisazione senza rete.
Ricordo un esercizio che mi assegnò.
Suonammo un’improvvisazione a tre mani sul pianoforte. Mal suonava sul lato sinistro, a due mani, dei flussi armonici cromatici di quarta e quinta, spostando il basso per tutto il tempo mentre io suonavo solo con la mano destra (come uno strumento a fiato) improvvisando solo appoggiandomi all’orecchio e alla memoria.
Lo facemmo per oltre 40 minuti.
Mai parlò di teorie, scale, accordi, schemi. Parlammo solo del suono nella sua totalità.
Insisteva sull’importanza del tocco sul pianoforte.
Menzionò aneddoti su Billie Holiday, John Coltrane e Abdullah Ibrahim.
Altri brani (non originali) su cui lavorammo furono: “So what” di Miles Davis e “Search for peace” di McCoy Tyner.
Considerava Jim Pepper come il suo sassofonista preferito. Perché “possedeva il fuoco”.
Si riferiva sempre alla sua musica come “free jazz”.
Ho avuto così il lusso di ricevere un corso “personale” di 15 giorni da Mal Waldron.
Uno dei miei eroi jazz.

 

Perché riconosci in Mal Waldron lo status di Grande Maestro?

 

Il mondo del jazz a volte è molto reazionario e infantile.
C’è un sacco di spazzatura nelle discussioni sui vari social network circa le regole, i dogmi;
su cosa sia il vero jazz o cosa non lo sia.
Inoltre (questo è il mio parere) alcuni musicisti di jazz soffrono di una specie di complesso d’inferiorità nei confronti della musica classica europea.
Come se le radici afroamericane non bastassero a legittimare il loro operato.
Per loro uno come Mal Waldron assomiglia ad una alieno proveniente da Marte.
Ma proprio questo è il suo vero valore. Ogni musicista jazz dovrebbe inventare una mitologia personale, un vocabolario, una grammatica ed una sintassi ed in modo indipendente esplorarli all’infinito.
Dopo aver ascoltato Mal (e qualcun altro), molti pianisti jazz sembrano pianisti da cocktail bar.

 

In quanto tu pianista, vorrei conoscere le tue opinioni sul suo stile pianistico

 

Nei primi anni ’90 scrissi un articolo sullo stile pianistico di Mal Waldron su Blue Jazz. Una rivista di jazz ora scomparsa dal panorama dell’informazione.
Rimarcai l’“onestà intellettuale” dell’approccio pianistico di Mal e la qualità ipnotica ed estatica del suo stile, segnalando comunque le grandi differenze tra lui e Thelonious Monk.
Molto spesso i giornalisti e i critici incasellano Waldron nella categoria dei “musicisti derivativi di matrice monkiana”.
Il che non è completamente vero, secondo me.
Egli è totalmente unico. E’ riuscito con il suo lavoro a catturare l’atmosfera della musica di Monk evitandone però clichés tipici e citazioni.
Ha inventato un nuovo modo per organizzare una performance di piano solo cucendo assieme moduli differenti per costruire un arazzo fatto di atmosfere cangianti.
Ha interpretato gli standard jazz con grande rispetto e amore per la melodia e per i suoi significati interiori.
Ha dipinto un nuovo scenario nell’immaginazione del pubblico.
Ha inventato nuove progressioni armoniche completamente originali nei concatenamenti.
I suoi accordi sono più “suono” che armonia funzionale e il suo lavoro è il punto di transizione tra concretismo ed astrazione, offrendo nuove strategie per il musicista creativo.
Dalle radici del jazz alla scena europea della libera improvvisazione, passando anche per il Prog-Rock (mi riferisco alla sua collaborazione con gli Embryo).
Come disse Steve Lacy: “Mal potrebbe suonare con chiunque” (e, aggiungo io, rimanendo sempre sè stesso)
Questa è la sua migliore qualità.

 

Hai avuto l’opportunità di conoscere l’uomo dietro il musicista, quali ricordi hai di lui come persona?

 

Era molto riservato e di poche parole.
Nei giorni del suo corso di jazz a Loano, siamo stati nello stesso hotel.
Così ogni sera abbiamo cenato insieme.
Dopo cena lui giocava a scacchi da solo!
Una notte mi ha sfidato.
Ho sempre perso ogni volta che ho giocato a scacchi con lui.
Durante i giorni in cui lo accompagnai con la mia auto per i concerti in Lombardia, raccontò barzellette un pò surrealistiche e un pò triviali.
Per la maggior parte del tempo nessuno in auto le capì (quando raccontava storie divertenti e scherzose parlava in maniera così veloce da sovrapporre molto spesso le parole), come se raccontasse storie a sè stesso, ridendo, quasi sempre, da solo.
D’altro canto era estremamente magnetico. Non posso dimenticare il suo sguardo e quella sorta di fuoco nei suoi occhi la prima volta che lo incontrai nella mia vita nell’albergo di Loano.

 

Ti interessano le sue composizioni? Ne suoni qualcuna?

 

Sì!
Ne suono moltissime.
E le utilizzo anche per i miei studenti.
Sono strutture meravigliose con molte implicazioni magiche.
Waldron ha esplorato molte forme e atmosfere.
Dalle composizioni basate su riff a complesse ballad con progressioni armoniche angolari.
Nelle sue composizioni c’è molta disciplina e molta libertà allo stesso tempo.
Sono così misteriose perché ogni volta portano verso direzioni differenti e nuove.
Alcune composizioni come “What it is” o “A case of plus 4” o “The Git-Go” o “Snake out” sono per me, dei cancelli per territori sconosciuti.
Così ogni volta che le suono scopro qualcosa di nuovo su di me, sul processo musicale e su Waldron stesso.
Queste composizioni sono molto affascinanti. Da un lato sono concrete e materiche, ma allo stesso tempo sono mistiche ed evanescenti.
Porgono una grande lezione sull’uso dello spazio e sull’economia del materiale. Come dei giardini Zen.
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Diplomato in Pianoforte e Musica Elettronica. Ha collaborato con i massimi specialisti mondiali del jazz e della musica improvvisata. Dal 1990 ha insegnato Prassi Esecutiva, Improvvisazione e Composizione nei corsi di jazz del Conservatorio "N. Rota" di Monopoli ricoprendo l'incarico di Coordinatore del Dipartimento di "Nuove Tecnologie e Linguaggi Musicali". Ha suonato e svolto attività didattica in tutta Europa, USA ed Africa ed inciso più di 100 cd. E' deceduto il 30 settembre 2019. Il suo nome è nell’Encyclopedie du Jazz di Philipp Carles.