L’idioma compositivo dell’israeliano Samir Odeh-Tamimi intercetta un rinnovamento della composizione ebraica che si materializza solo all’entrata del nuovo secolo: le giovani generazioni di compositori, soprattutto quelle più sensibili alle problematiche politiche, hanno rifiutato una guarnizione della loro musica fondata su valori simbolici o tradizioni sviscerate nella musica composta, cercando di andare all’osso della sensazione e del vissuto attraverso i suoni (oltre a Odeh-Tamimi interessanti stimoli provengono dal compositore Yoav Pasovsky, molto apprezzato a Doneuaschinger nel 2015 con un pezzo per orchestra diretto da Eotvos e dalla contemporary jewish music di Stefan Weglowski, di cui vi ho già parlato in una precedente recensione).
Odeh-Tamimi a 22 anni si è trasferito in Germania, colpendo subito l’apatia immaginativa: 22 anni di climi arroventati ed insicuri (cresciuto nelle ristrettezze psicologiche di un villaggio di Jaffa), nei quali ha sviluppato capacità musicali e pittoriche. Samir ha intuito che si potesse creare una rete di collegamento tra metodi e tecniche esecutive del suo mondo arabico e le istanze avanguardiste della musica contemporanea. Tutto ciò che a livello di suoni era dentro la memoria del vissuto poteva ritornare sotto forma di composizione, invero un modello piuttosto presente nella storia delle forme compositive, ma che Odeh-Tamimi ha saputo dosare tagliando di netto qualsiasi carattere interpretativo; è la musica nuda e cruda che deve darti la scossa, sono i suoni che dirigono correttamente le nostre emozioni.
La seconda raccolta monografica dell’autore, condotta su basi camerali ed appena pubblicata per Kairos (la prima, per la Wergo nel 2011, si riversava nella scrittura per ensemble ed orchestra) individua magnificamente il carattere compositivo di Odeh-Tamimi: nonostante nelle note interne il compositore israeliano faccia riferimento a Scelsi e Xenakis, l’idea trasmissiva di questi chamber works fa funzionare il cervello in altri posti. La saldatura tra la pratica performativa dei musicisti arabici e la psicosi della musica contemporanea viene raggiunta grazie ad un’ingegnoso lavoro sulle tecniche estensive. Se acuite un tantino l’attenzione sulla strumentazione utilizzata, vi accorgerete che:
1) essa si dirige sui toni bassi di alcuni strumenti appositamente prescelti (trombone tenor-basso, clarinetto basso, sassofono baritono) o tradizionalmente intesi (il pianoforte fluttua a clusters regolari e a risonanze, le percussioni intonano rimbòmbi), per determinare l’umore plumbeo e basico della composizione. Odeh-Tamimi si serve del lavoro eccellente dello Zafraan Ensemble, un collettivo in cui militano molti ottimi musicisti avvezzi ad un repertorio più attento alle saturazioni dei suoni che alle sue relazioni melodiche ed armoniche;
2) le linee melodiche di ciascun strumento (in evidente frammentazione), lavorano sulla combinazione tra estensioni che, nelle due pratiche, hanno punti in comune.
3) la regolazione su quelli a registro alto avviene per sostenere un diverso somatismo dell’ambientazione; viene condotta in solitudine e appoggia piccole situazioni: ci si ritrova con un violoncello che viaggia tra uno strappo e un fischio, o con un violino che sta tra le dinamiche di un’esile nota scavata dallo strumento e una struttura nervosa e complessa, per esprimere sensazioni localizzate. In questi casi è senz’altro più difficile rilevare gli idiomi stilistici di Odeh-Tamimi.
Molto appropriata è quella parte di commento fatta da Claudia Pèrez Inesta, allorchè afferma che “…in the pieces of Samir Odeh-Tamimi, there is always a presence behind the notes, behind the words. It might be an exclamation, amazement, perhaps inspired by the hitting tones of his maternal great-grandmother Um-Kámel to wake up those who are sleeping, not out of madness, but of a metaphorical vision that goes beyond the shallowness of life…”.
Non ha una propensione drammatica la musica di Odeh-Tamimi, è pura e cruda comunicazione, vuole documentare in maniera perfetta uno stato ed utilizza il lato psicologico-metafisico dei suoni per giungere allo scopo: solo in questo si condensa l’avvicinamento teorico a Scelsi e Xenakis. E allora non si può fare a meno di pensare ad un tragitto ansioso ed infestato su una strada siriana in Li-Umm-Kàmel, al cammino infausto di un commando in Làmed, al vorticoso perimetro dell’attività migratoria, che lancia segnali vivi nell’introduzione e svolgimento di Li-Sabbra, pezzo in cui le percussioni esalano energia e un trombone imposta il saluto sonoro di una nave per creare altri obiettivi, fino ad arrivare alla splendida Alif, oltre 15 minuti con lo Zafraan Ensemble al completo e una spettacolare Salome Kammer a sottolineare l’intensità degli scenari musicali: strumenti dalla capacità simulatoria fortissima, che riescono a trasferire la prestanza emotiva di un segnale di avvertimento, di un rivolgimento fisico, di un grido di protesta che trasuda voglia di cambiamento, che intercetta una schiavitù politica e una sfortuna che sembra trascurata anche dalle entità spirituali.