Nell’ambito del motto “Music for the inquiring mind and the passionate heart” Leo Feigin si è impegnato a proporre anche musiche che hanno una relazione parziale con il jazz e l’improvvisazione libera. La considerazione principale da fare al riguardo è che la generazione di Leo (così come quelle successive) ha subito il fascino delle musiche tradizionalmente create nel mondo anglossassone, in primo luogo quelle legate alla musica rock. Ad un certo punto della storia il pacchetto (più o meno spendibile) degli elementi costitutivi della musica americana (blues, country, rock’n’roll) è entrato non solo in una fase di intersezione con altri generi musicali, ma addirittura ne ha formato un subsistema immediatamente utilizzabile per il mondo intero: nella fase di americanizzazione della musica post anni sessanta, il rock (musicalmente condotto a determinate condizioni) fu onda creativa devastante, entrando nell’espressione idiomatica del jazz (Canterbury e tanta musica progressiva), in tanta pop music sparsa in giro per il pianeta (dagli Abba fino ai gruppi più sperimentali), nella chanson francese e in tanto cantautorato italiano, e in altre miriadi di inquinamenti morfologici.
Le operazioni di Feigin, dunque, ogni tanto gettano un ricordo-ponte su una fase effervescente e particolarmente creativa della storia della musica, in cui comunque non manca l’apporto improvvisativo. In questa sede sono due le novità discografiche proposte.
La prima riguarda il trio di John Wolf Brennan, composto con Tony Majdelani e Marco Jencarelli, che giungono dopo cinque anni alla seconda esperienza discografica, dal titolo Oriental Orbit. Delle caratteristiche somatiche della loro musica ve ne ho già parlato in occasione del loro primo cd e perciò, in un’ottica genericamente indirizzata ai contenuti musicali, li vi rimando (qui); in più aggiungo solo che la famiglia di strumenti utilizzati si è nel frattempo allargata, dando spazio a maggiori caratterizzazioni libere dei suoni in funzione di una crescente volontà di fornire un panorama spirituale della musica. Ispirati dalla saggezza delle parole del monaco benedettino David Steindl-Rast, il trio si produce in un originale raccordo tra suoni del mondo occidentale ed orientale, prima vissuti e poi trasferiti nella musica attraverso gli strumenti: in tal modo strumenti come l’handpan, il berimbao, il santur, il bodhràn, lo zither armeno o le campane tibetane sono considerate il veicolo di una presunta incorporazione paesaggistica e mistica.
Posto che il Brennan solista del pianoforte sia esperienza non più rinnovabile nel breve tempo, penso che diventi centrale la riflessione che i tre musicisti fanno a proposito dell’inevitabile carica “globale” che suscitano e riprendo qui una frase di Brennan lanciata nelle dettagliate note interne di Peter Monaghan….”…we didn’t actually talk about what we wanted to do beforehand, but of course the present situation of world politics -especially, the so-called “clash of cultures” between East and West – couldn’t be ignored and sneaked into our musical endeavours…“. Lo scetticismo dei Pilgrims (questa la denominazione del trio) riguardo ad un futuro totalmente decostruito delle due principali culture e religioni mondiali sembra poter spostare gli equilibri indietro nel tempo, quando il sincretismo era una soluzione possibile; ma oggi, in un momento in cui la crisi delle religioni miete vittime su entrambi i fronti (vedi i vari estremismi), qual è la formula musicale esatta e corrente per mettere assieme un nuovo ordine mondiale? Oltre la bella costruzione musicale, si possono scorgere delle novità sul fronte sperimentale? Oriental orbit lancia un paio di proposte che sono, però, tutte da approfondire: da una parte l’inserimento di intermezzi musicali costruiti su field recordings (i tre Water Whole), dall’altra una ilare interpretazione di un passaggio del Finnegans Wake di Joyce, che unisce musica e adattamento linguistico.
L’altro modello stilistico preso come riferimento sono i Led Zeppelin: con un neonato gruppo a base geografica variabile, i Jet Lemon Band (cinque elementi provenienti da Russia, Germania e Sud Corea), provano a fornire con molto coraggio una versione del Led Zeppelin II, secondo, fervido album del gruppo inglese del 1969, proponendo una virtuale sostituzione con un Led Zeppelin II in the key of jazz.
Innanzitutto sgomberate il campo dalle pastoie e dalle vicissitudini delle cover band, perché qui siamo in presenza di una ripresa fatta con professionalità e soprattutto con molta personalità: tutto il Led Zeppelin II viene ripercorso nello stesso ordine dei brani di quell’originale, sono però i particolari interpretativi che variano di molto, plasmati sulle capacità dei singoli musicisti. L’idea dei Jet Lemon Band è quella di fornire una lettura alternativa, in grado di staccarsi dai clichés di un’epoca e di una registrazione fantomatica. Per fare questo le melodie vengono accelerate, le ritmiche portate a livello di una misura jazz-rock, si asciuga tutto ciò che rilascia sapori progressivi o modalità di performance direttamente riferibili a quei tempi; così facendo si può scoprire un’eccellente alternativa vocale in Jim Aviva, un pianismo aggiuntivo e totalmente sbilanciato nel jazz in Sammy Lukas, una sezione ritmica che potrebbe stare nelle fila dei musicisti degli Allmann Brothers Band nelle persone di Benjamin Schlothauer al basso e Jakob Kufert alla batteria. La smussatura è evidente ma anche inebriante: sentite come Thank you si trasforma in un pezzo da vivere come crooner di jazz oppure Heartbreakers, brano che potrebbe stare sul At Fillmore East degli Allmann, o ancora notate la differenziazione che la percussione quasi rituale di Bonham in Moby Dick subisce, sino a diventare un assolo di libera improvvisazione. Nonostante una copiosa attività interpretativa effettuata sui Zeppelin, si può affermare che il tentativo dei Jet Lemon Band si ponga tra i più sapidi e meno ascoltati nelle devianze jazz.
Led Zeppelin II in the key of jazz sviluppa anche un certo tipo di riflessione, ossia come mantenere in vita un saggio musicale del passato con ingredienti personali che importunano la versione originale. Se si è allenati all’elasticità interpretativa, alla capacità di modificare intelligentemente i termini melodici o ritmici di un pezzo, si possono ottenere ottimi risultati, soprattutto se si lascia che il cambiamento venga spontaneamente parametrato sulle proprie qualità artistiche: pensate, nel rock, ad artisti come Willy De Ville, quando ripropose alla grande Could you would you di Van Morrison o quando trasformò Hey Joe di Hendrix: operazioni che asciugavano gran parte delle sottili ed uniche peculiarità artistiche degli originali, per mostrare con la sostituzione, una netta impronta identificativa.