Non è pleonastico sottolineare che l’elettronica abbia fornito mezzi diversificati per la creazione artistica. In un infinito arsenale di mezzi a disposizione, ogni musicista ha scelto quelli più opportuni per esaudire un pensiero che si collega strettamente a quei dispositivi. La maggior parte dei musicisti si trova a svolgere una particolare attività del comporre, a cui si dedica sfruttando tecniche e soluzioni che hanno come scopo principale quello di proporre un suono, timbricamente interessante, lasciando che si formi nell’ascoltatore un’estetica singolare della musica composta.
Per chi non abbraccia (o abbraccia parzialmente) l’avventura elettronica tramite la parvenza della videoarte o di altri mezzi visivi, ha un compito nettamente più difficile nel trovare nuovi canali di sbocco dei suoni, vista la maturità del settore. Costoro devono fare un grosso sforzo per evitare una facile retorica e indurre una decente estetica che si auspicherebbe quanto più condivisa nell’audiance: l’ingegno passa attraverso le sculture sonore, gli avvitamenti timbrici e l’intelligente creazione di trame e tessiture. Per molti di loro si rende quasi necessario un incontro con la disciplina accademica, più che altro alla ricerca di convergenze del pensiero.
Un lavoro interessante si svolge sul processing e sulla manipolazione, come succede nella testimonianza discografica di Marco Ferrazza in Citizen: da tempo i musicisti elettronici di mezzo mondo si sono sodomizzati sulle qualità e proprietà sonore delle elaborazioni estraibili da una consolle di spinotti e manopole, cercando di produrre una convicente teoria della decostruzione sonora che possa riallacciare anche tematiche filosofiche e disamine del pensiero sulla società in cui viviamo. Citizen ne produce una propria, che se volessimo descrivere con un paragone sensoriale, somiglierebbe in prima istanza alla sensazione sonora prodotta da un finestrino aperto di un’auto in corsa, con vento in prominenza. E’ la turbolenza che si impone attraverso i suoni/rumori, un’attività del mescolare e confondere, che almeno in due episodi restituisce molto di più di una sbrigativa accelerazione dei suoni: Latina lancia i soliti segnali di pericolo tra bimbi ignari che giocano, un polifemico afflato sinfonico e tanti rumori sradicati alla normalità (onde sintetiche che si amplificano, eliche di elicottero che sorvolano, sontuose ferraglie sonore in movimento), mentre la finale Scenario si inerpica in un ronzio costante che copre/affianca un drone amplificato (un rumore che sembra simulare il passaggio di un aereo), tensione-distensione che dà posto a spazializzazioni di suoni da scantinato che deducono un passaggio difficoltoso, quando poi alla fine una calma decisamente attraente, delinea un punto di arrivo, un fine corsa che esaurisce la “narrazione” e l’impronta semiotica della musica.
Il resto del cd è più istintivo e non dà nessuna chance alla riflessione: il rimasticamento atonale è sempre molto pronunciato, nonostante gli srotolamenti elettronici diventino più caustici. Tuttavia il caos è opprimente, senza speranza, canalizzato in vortici di farraginosità che mettono una camicia di forza ai suoni (vedi Fluttuazioni).
Jorrit Tornquist è un famoso architetto che ha costruito la sua fortuna sui significati della colorazione. Qualche mese fa, sua moglie contattò il musicista Tiziano Milani, per commissionare una piece di elettronica per gli ottanta anni di Jorrit. Milani si è subito adoperato per creare Light + color + sound, sfruttando l’ampio patrimonio teorico disponibile sulle teorie delle corrispondenze tra colore e musica, punto di partenza dell’esplorazione sonora. Tornquist ha accettato il pensiero di Goethe e Steiner, nonché la vulnerabilità psicologica del colore sull’uomo. I colori e la loro combinazione, al pari dei suoni, servono per dirigersi su zone specifiche di quell’area ampia dei sentimenti riflessa dalla consapevole analisi fornita dalla nostra mente. La ricerca di Milani prova a sondarla. Qual è la maniera? Creare delle architetture acustiche, ossia come nelle sue parole “…lengthy, shifting, onereic and variegated sound tracks…“. Lungi dall’essere uno studio elettroacustico di quelli alla Chion o dei soundscapes canadesi, Light + color + sound è una composizione che con presunzione vuole collocarsi in quelle sfumature del Disco Cromatico di Jorrit, che vorrebbe indagare emotivamente allo stesso modo con cui l’austriaco ha indagato per capire i fattori che stimolano la percezione del colore, e per farlo si serve della manipolazione del materiale tramite un computer.
E’ così, dunque, che veniamo accolti da una litania di note di piano senza particolari congiunzioni e un prestante drone, che assieme a qualche ritardo e qualche percussione riciclata allo scampanellio meditativo, crea un’iniziale clima bucolico. Intorno al 13′ minuto le intensità crescono ed emergono le sfumature dei processi, frammenti di suoni ricavati da oggetti e da strumenti, che annunciano un clima più misterioso. Il drone al 17′ minuto diventa compatto, forte e, poco a poco, grazie a qualche nota melodica elaborata in modalità subliminale e modificata in densità e intensità volumetrica, porta in cattedra un climax benefico (25′ minuto circa), paesaggi dell’auralità musicale che smistano ancora uno di quei sogni/viaggi che appartenevano ai corrieri cosmici (depauperati del fattore ritmico); l’onirico si stempera al minuto 37′, quando la solidità dei suoni impone una conclusione (i versi distinti di uccelli nella struttura empatica propongono un’ecologia standard degli ambienti alla Schafer).
Rielaborare suoni al computer significa anche accettare i limiti del nostro ricordo aurale, da cui scaturisce tutta la rappresentazione conseguente. Siamo nella riflessione calzante di Andrea Piran, in arte Adern X, musicista di elettronica di Pistoia:
While reworking the audio spectrum and editing the track, I became aware of how memory is essentially an aesthetical rewriting of facts and editing is the grammar of it. So, if history is a description then memory is an interpretation.
La proposizione, tratta dalle note del suo ultimo cd dal titolo Summer twilight Autumn dawn, giustifica un progetto impostato su tre direttive: una serie di loops (tra i quali spiccano insonorizzazioni meccaniche), alcuni campi di registrazione (voci di adulti e bambini, auto in corsa che solitamente compongono la scena vitale del campo), e dei campionamenti stratificati (il surgelamento digitale di un arrangiamento classico). Programmatico nella titolazione, questo lavoro ha il pregio di sapersi districare nel regno delle dimensioni, ossia compie bene il passo subliminale che ci permette di distinguere tra ambiente esterno ed interno ed inviduarne le relazioni, così come delicato si profila il momento del “passaggio” tra giornate o tra stagioni, in particolare il cambiamento tra estate ed autunno, che Piran bolla come “..distinct sense of loss..“; ciò che manca è però quell’intuizione geniale di un’indagine di un certo livello sonoro, che possa farlo competere con analoghi prodotti.