Talvolta le scoperte migliori si compiono nella più completa accettazione della causalità: nell’atto ricorrente di andare a spulciare nelle news dei prodotti discografici della Ravello Records, un’etichetta del New England particolarmente attiva sul fronte delle nuove registrazioni devote alla musica classica, mi sono imbattuto in una inaspettata pubblicazione digitale di un trio di improvvisatori norvegesi. Molto più che semplici improvvisatori, i tre coprono un’area musicale parecchio distinta dalla media delle proposte della Ravello, presentando allo stesso tempo un intrigante curriculum professionale: Magnar Am (1952) è un compositore che insegna periodicamente compo-improv e filosofia a Volda, un’artista che ha scritto musica per le migliori orchestre e cori norvegesi, nonché per tanti musicisti del suo paese, attenti alle innovazioni per strumenti poco considerati nell’improvvisazione e nella musica in generale; Geir Hjorthol (1952) è professore di letteratura nordica sempre a Volda e trombettista particolarmente esposto alla relazione con fonti esterne (elettronica ed altre arti); Andreas Barth (1974) è invece un percussionista di Eidsfoss, fabbricante di strumenti in proprio e titolare di un piccolo studiolo di registrazione flottante. La conoscenza sottostante della musica è perciò molto ampia e condivide molto del pensiero nordico: Hjorthol e Barth, d’altronde, hanno già avuto modo di materializzare, nel 2015, un’esperienza improvvisativa in una registrazione indipendente dal titolo Ramme (Farmorhuset Musik).
Tra le tanti attitudini, una delle più frequenti ed amate dai norvegesi è quella di ritirarsi a suonare in luoghi acusticamente non convenzionali, luoghi di transito conosciuti o anche abbandonati. Tra questi ultimi c’è anche la location utilizzata dai tre musicisti nell’ottobre 2016, ritrovatisi per una sessione improvvisativa alla The Propeller Hall di una fabbrica estinta di Volda. Si tratta di un’area industriale dismessa, con un grosso edificio oramai svuotato dai macchinari e completamente alla mercé del degrado fisico e del ricordo. In quell’edificio strutturato a due piani (un piano superiore dedito alla produzione e un piano destinato a sala riunioni al primo), i tre musicisti hanno percepito la gradevolezza di un ambiente che acusticamente era in grado di inviare dei segnali; l’ispirazione si è dunque adeguata nel ricomporre tutto quel complesso di relazioni che l’azienda aveva posto in essere. Il transfert è anche di tipo filosofico, poiché estrae da Benjamin una sorta di passpartout della somiglianza d’intenti, che poi costituisce anche il titolo delle 11 caratterizzazioni musicali del lavoro: The Broken Vessel si rifà a quanto Benjamin dichiarava a proposito delle traduzioni poetiche da effettuarsi in lingue diverse, ponendo l’obbligo a carico del traduttore di tenere in considerazione le differenze dei linguaggi ai fini di una corretta interpretazione dei concetti. Un vaso rotto implica pezzi distinti da ricollegare, che avranno la loro giusta comprensione solo nell’ambito di un’adesione che rispetta la propria forma (i cocci sono di regola tutti diversi l’uno dall’altro) in un quadro più generale della coesione (l’obiettivo è ricostituire una relazione spirituale che sottintende lo scenario del collegamento dei pezzi). I tre norvegesi fanno assolutamente questo: armati dei loro temerari strumenti, si propongono di rimettere in gioco una trama umana (probabilmente vissuta anche con l’animo di chi ha raccolto la testimonianza delle zone, essendone un cittadino) e di cucire tutte le emozioni attraverso il gioco subliminale della musica. La lista degli argomenti sonori è eclettica e consistente: Magnar Am è alla glass harp, grand piano, tastiera, water bowl, voce e zip lock in Refractions III; Geir Hjorthol è alla tromba, calimba, tubo elettrico e voce; Andreas Barth suona un drum kit fatto da lui, differenti cimbali sparsi sul pavimento, marimba, una sega suonata con l’arco per il violoncello, un kit per seghe a foro usate come strumento a percussione, campionatore ed effetti sonori basati su iPad, due registratori analogici con amplificatori a valvole incorporati (registratori Tandberg degli anni ’60); all’interno dell’edificio, le occasioni di suono sono un contenitore a rotelle (si sente in Deconstruction/Recostruction) e altri piccoli oggetti abbandonati.
All’atto pratico (l’ascolto), The Broken Vessel è una incredibile sorpresa, perché tiene dentro una serie di circostanze che lo rendono eccellente: l’acustica particolarmente indovinata, le soluzioni pregevoli adottate sugli strumenti, una progettualità che prevede in linea di massima solo alcune azioni preventive, lasciando che l’improvvisazione sia conciliante per raggiungere l’efficacia sonora.
Tre evidenti stili che si fondono: Geir con la sua tromba evoca un perfetto nordic style jazz, con tante postille estensive; Barth oscilla in un percussionismo ecologico che al suo interno comprende tanti sub-sistemi (simulatorio, riduzionista, kitchen style), mentre Am contribuisce con tastiere e voce ad introdurre quel travestimento emotivo che sta dietro molte sue opere classiche, ossia un sentiment che, nella sua deformazione musicale, intercetta le sembianze di un oratorio.
La capacità simulatoria si proietta su un ampio ventaglio di percezioni:
1) le macchine,
si percepiscono in varie modalità: per esempio in The factory ci sembra di poter scorgere ingranaggi a rilento, in On the edge si parte con qualcosa che somiglia ad un flex, oppure in Refractions II le percussioni sembrano fiammelle ossidriche; sono open spaces quelli rinvenibili dalla musica, dove l’ambiente esterno collabora con quello interno: gli intervalli acustici e percussivi di Second Nature e Fragile, donano la sensazione della profondità dello spazio utilizzato, coinvolgendo il traffico in lontananza;
2) gli uomini,
sgusciano sotto la resa degli strumenti, mimetizzati nell’estensione della tromba o del canto, che imposta quella dimensione antica e clericale che si scontra perfettamente con l’abbandono profuso dagli ambienti della fabbrica; nella lagnanza al limite del madrigalismo di Refractions II o in quella più frammentata e narrativa di Refractions III; in Way out, poi, Barth usa persino dei campionamenti di voci, elaborate digitalmente, ansie vocali che si introducono in un pezzo che prevede un accattivante parte di tremolo per tastiera;
3) le relazioni,
temi melodici, catodici e profondi, si rivelano tangenti per produrre psicosi: capita nella nenia di The Broken vessel, nella solitudine stridula della parte centrale di On the edge o ancora nella convulsa interrogazione di Deconstruction/Reconstruction prodotta da un’accelerazione strumentale, un rimbombo terribile di un piano in avanscoperta su tutta la tastiera.
Di vasi, ma non rotti, se ne parlò in maniera illustre nel jazz con Paul Motian (Conception Vessel). Il vaso rotto di Am-Hjorthol-Barth, però, vi dirige su binari emotivamente diversi. E’ il tentativo di rianimare un luogo, di applicare i principi di Schafer. I sincronismi raggiunti in The broken vessel proiettano un teatrino dell’immagine che è speciale e che appartiene solo a quel sito di Volda. Va da sé che questi espedienti dell’improvvisazione che provengono dal Nord Europa non fanno altro che confermare che un cambiamento è in atto e che sarebbe ora di riconoscerlo con più efficacia*.
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Nota
*Al momento il lavoro è disponibile solo in formato digitale, tramite le principali piattaforme dello streaming e della vendita ufficiale di musica.
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