E’ noto che funzioni e livello espressivo del basso hanno ricevuto un accrescimento grazie a Jaco Pastorius. Previsto per fare faville in altri generi musicali, il basso acustico ha vissuto di concomitanze e subordinazioni nel campo dell’improvvisazione, con contrabbassisti che all’uopo diventavano anche bassisti (vedi il caso di Swallow ad esempio), ma si può ragionevolmente affermare che la magia dei bassisti post-Pastorius regalava magnifici sviluppi nel campo armonico e melodico della musica, accettando l’idioma jazz e lasciando da parte una vasta area dell’espressione; usare un basso per improvvisare liberamente, senza strutture ed ordini, sembrò qualcosa che potesse essere circoscritta solo alle esperienze libere dei chitarristi. Nonostante tuonassero i tentativi dei musicisti di basso elettrico di impostare un’era della rivoluzione del modo di suonare lo strumento, ciò che mancava era l’accoglimento totale delle teorie improvvisative di Derek Bailey, cioè quelle che riportavano ad un utilizzo fisico e men che meno armonico o ritmico dello strumento. Da questo punto di vista le personalità che hanno seguito quel percorso apparentemente arido, inviso alla tonalità e completamente impostato ideologicamente, sono da contare sulla punta delle dita. In Italia, musicisti come Roberto Del Piano sono dunque alfieri di una invidiabile rarità strumentale, in cui mancano testimoni/successori concreti.
Dopo il bellissimo La main qui cherche la lumiére, Del Piano al basso elettrico si ripresenta con una registrazione pubblicata per Setola di Maiale, un cd in duo con il clarinettista Joao Pedro Viegas che lo ritrae in un’esibizione fatta a Milano al Salotto in Prova nel settembre scorso: Friendship in Milano è una lezione di musica, perché vi insegna come qualsiasi soluzione musicale estemporanea vada sentita prima dentro di sé, assimilata e concepita in un patchwork che mira a raggiungere la migliore creazione estetica, se per quest’ultima ne ripristinassimo la vera funzione. L’idea è quella di collocarsi probabilmente in una particolare finzione dove ognuno ha la sua parte, una sorta di documentazione sonora del vivere la dimensione musicale, così come è stata vissuta in tanti anni di esperienza. A Viegas gli si attribuisce una parte sgusciante, continue sonorità che sbucano dal suo clarinetto basso (strappi, fluttuazioni, arrampicamenti, frutto di tecniche estese), fuoriuscite che somigliano a sgorghi scomposti di un rubinetto dell’acqua quando la pressione non è regolare, mentre Del Piano si incarica di delineare un percorso che a fronte di alcuni accorgimenti già congegnati (spazi brevissimi dell’instant composition), dà propulsione attraverso passaggi improvvisativi in cui il suo basso disegna linee sbilenche o torbide condensazioni di suoni che sono veri e propri modi di pensare in musica, ossia pongono interrogativi, stimolano urgenze, punteggiature o atteggiamenti di un ipotetico dialogo. Perciò c’è di tutto in Friendship in Milano, dall’orologio ritmico che imperversa nel ricordo degli old times di First conversation ai capitomboli di Short tale about energy, dall’evidenza celatamente teatralizzata che deriva da Lament agli stop and go di Rejoicing, dove ogni nota al basso di Roberto è un macigno, una profonda compenetrazione di ciò che velocemente crea un percorso in musica.
Una preziosa attività camerale, con contrapposizione tra corde, trombone e sassofoni, proviene invece dal trio formato da Giancarlo Schiaffini, Luca Tilli e Errico De Fabritis, raccolta sempre per Setola di Maiale. Kammermusik è composto da 8 Musik nuove di zecca e 5 reinterpretazioni. Le Musik sono progettate per ottenere sponde continue dall’improvvisazione: i suoni sterilizzati vanno alla ricerca di appoggi e, a differenza di quanto è stabilito nella simulazione dei percorsi che appartengono alla composizione contemporanea, distorcono sistematicamente la prospettiva aurale dell’ascolto, facendo scattare continuamente la domanda “dove mi trovo adesso?”. Tra le reinterpretazioni Tilli è bravissimo nel creare una sorta di segmentazione ritmica abnorme nella Double exposure di Herbie Nichols, mentre Schiaffini incornicia la sua inconfondibile presenza negli omaggi a Mengelberg, che riprendono due pezzi che l’olandese registrò su Who’s Bridge nel ’94, in un trio classico con Brad Jones e Joey Baron: pezzi dal tema istantaneo ed immediatamente disponibile per l’improvvisazione, originariamente in seno all’I.C.P. Orchestra, ne risulta scheletrica la versione di A bit nervous, mentre sorniona e decisamente trasportata in modalità caustica è il rifacimento di Rumbone.